Double farang: da Chiang
Mai a Mae Hong Son
Mentre mi appresto ancora una volta a
rimetter piede sul suolo thai, ripenso d’impulso a quanto scrissi
qualche anno fa, laddove cercavo una plausibile spiegazione circa le
motivazioni che m’inducevano periodicamente a tornare da queste parti.
Pensai inizialmente, che i motivi si potessero facilmente addurre
all’oggettivo dato di fatto che vede il paese universalmente
riconosciuto come estremamente ospitale, grazie anche e soprattutto alla
sua gente, sempre cordiale, amabile, disponibile, oltre che di continuo
pronta a regalarti un sorriso, aldilà dello scontato rapporto turistico
che ci lega durante un viaggio; oppure, più semplicemente, perché
tornare in Thailandia significa potersi nuovamente inebriare della sua
straordinaria natura, la quale sembra ogni volta quasi divertirsi ad
incantarmi come un bambino; perché adoro quel senso di incredibile
spiritualità, che avverto passeggiando serenamente nei suoi Wat, o
perché mi affascina la sua intrigante, variegata e secolare cultura, od
ancora perché amo la sua cucina, così saporita, speziata e piccante,
oppure perché...
Pur cercando una banale spiegazione,
che forse presa singolarmente non può esistere, compresi quindi ben
presto che vi tornavo sempre volentieri, probabilmente anche perché,
avrei potuto facilmente trovare altri mille motivi per giustificare
proprio quell’ennesimo perché che stavo cercando. Comunque, pur avendo
in seguito apposto nuovamente il timbro thai sul mio passaporto, oggi,
quasi alla fine di questo 2008, qualcuno di quei fantomatici perché, o
più verosimilmente tutti assieme, mi hanno ricondotto ancora una volta
qui, in questo meraviglioso paese, atterrando stavolta nel nord.
Il primo impatto con Chiang Mai
è positivo. Dopo aver superato il canale ed i resti delle vecchie mura
orientali appartenenti al quadrilatero che la delimitano, passeggiamo
spensieratamente tra le vie della città vecchia, la quale si presenta
decisamente a misura d’uomo. Qualche tuk-tuk che sfreccia velocemente
nel debole traffico, alcuni sawngthaew colorati di rosso, dei locali
alla buona, diversi monaci con le loro caratteristiche tuniche arancioni
intenti a raccogliere le offerte del primo mattino, nonché un po’ di
chioschi disseminati alla rinfusa lungo i lati delle strade, che emanano
un gradevole ed invitante odore di cucinato.
Sì, è nuovamente Thailandia.
Finalmente Thailandia.
Chiang Mai sembra annoverare circa
trecento Wat, diversi dei quali disseminati in pieno centro. Il tempo
però si sa, è spesso tiranno, tanto da indurci a ridurne drasticamente
il numero, scegliendo di visitarne solo alcuni tra i più importanti,
così, per la modica cifra di centocinquanta baht, poco più di tre euro,
trascorriamo la mattinata facendoci scorazzare in tuk-tuk da una gentile
signora tra il Wat Chedi Luang, il Wat Pra Singh,
ed il Wat Chiang Man, tutti meritevoli di una visita, sebbene la
mia personale preferenza ricada senza dubbio sul primo per il suo
aspetto innegabilmente poco sfarzoso, antico e decadente, il quale
ospitava un tempo nientemeno che il veneratissimo Buddha di Smeraldo,
oggi scrupolosamente custodito nel Wat Phra Kaew di Bangkok. La
sacralità di questi templi è quasi palpabile, ed anche chi come noi non
riesce a cogliere i profondi significati legati alle singole gestualità,
non può che mostrare sentito coinvolgimento in segno di rispetto
dinnanzi alle tante persone così intimamente impegnate a pregare. Il Wat
Phra Sing ospita la statua del Buddha più venerata della città, e qui
attorno è tutto un pullulare di monaci, per la gran parte molto giovani,
che sembrano tinteggiare d’arancione l’ambiente circostante, mentre il
Wat Chiang Man viene accreditato da diversi archeologi come il più
antico tempio di Chiang Mai, essendo fatto edificare nientemeno che da
Mengrai, il fondatore della città nel 1296.
Anche se ho personalmente preferito
la Sunday Walking Street, ovvero la centralissima ed intasata
Thanon Ratchadamnoen, che durante le domeniche sera viene chiusa al
traffico per trasformarsi in un enorme e coloratissimo mercato
comprendente decine e decine di bancarelle che vendono mercanzie e
cibarie varie, il visitatore a Chiang Mai non credo possa esimersi dal
compiere almeno una passeggiata serale di rito attraverso il celeberrimo
Night Bazaar, mastodontico e caotico mercato, che abbraccia
parecchi isolati lungo Thanon Chang Khlan, dove centinaia di venditori
ambulanti di paccottiglia turistica e falsi capi griffati si alternano a
negozietti seminascosti che espongono autentico artigianato locale,
argenteria, e ceramica. Durante la nostra permanenza in città testeremo
con soddisfazione anche le due ampie zone attigue al mercato dedite alla
ristorazione, quale il Kalare Food Centre, che sovente ospita
anche gratuiti spettacoli di danze tradizionali, ma soprattutto il
mercato notturno di Anusan, autentica esplosione di aromi e
colori, dove i wok lavorano incessantemente sprigionando nell’aria
intensi profumi, ma nel quale recitano un ruolo da assoluti protagonisti
soprattutto i locali ed i banchetti specializzati in piatti di pesce.
Pesce a Chiang Mai? Sì, oltretutto freschissimo, ed anche di pregevole
qualità, importato quotidianamente da Bangkok. Aragoste lunghe quanto un
braccio, gamberoni abnormi e molteplici specie di pesce fanno bella
mostra di sé su dei giganteschi letti di ghiaccio, invogliando file di
avventori ad ordinarli per imbandire sontuosamente la propria tavola.
Sembrerebbe che i francesi siano
stati tra i primi occidentali ad avere dei contatti con i thai, e
qualche teoria sostiene anche che, proprio dalla storpiatura della
parola
française in farangse, deriverebbe il termine “farang”, comunemente
usato quest’oggi per indicare gli stranieri, o più propriamente i
turisti occidentali. Salendo sul
Wat Phra That Doi
Suthep, uno dei templi più venerati
dell’intera Thailandia, ubicato in prossimità della vetta collocata
nell’omonimo parco, da cui si gode una bella visuale della sottostante
Chiang Mai, sperimentiamo una costante che ci accompagnerà nel proseguo
del nostro viaggio qui al nord, ovvero la nutritissima presenza di
turismo thai. In tutti i posti che visiteremo, la grandissima
maggioranza degli altri visitatori incontrati saranno thailandesi,
soprattutto provenienti da Bangkok. Amplierò a dismisura la mia rubrica
telefonica di contatti, ed avrò l’agenda già piena di impegni per quando
visiterò la prossima volta la capitale grazie alle tante persone
conosciute, ma anche questo viaggio in sé stesso prenderà una piega
diversa, poiché saremo in ogni luogo visitato doppiamente farang:
turisti stranieri in terra thai, e stranieri tra la stragrande
maggioranza di turisti thai.
Il Doi Inthanon, parco nazionale
distante una sessantina di chilometri da Chiang Mai ed habitat naturale
di svariate specie animali, offre l’opportunità di compiere una
piacevole escursione giornaliera. Mediante una strada panoramica che si
articola lungo la sua dorsale, la quale offre belle visuali sui
circostanti campi di riso o soia terrazzati, e consente altresì ai
visitatori di poter eventualmente effettuare delle soste presso alcuni
piccoli villaggi tribali appartenenti alle etnie Karen ed Hmong, si
raggiunge comodamente “The highest spot in Thailand”, come
recita un cartello posizionato nel punto più alto della nazione, a 2565
di altezza sul livello del mare. Chi come noi è abituato soprattutto al
sud di questo meraviglioso paese, fattori come la pungente temperatura
che si avverte in cima alla vetta, la quale invoglia ad indossare capi
pesanti, associata ad i tanti thai imbacuccati di sana pianta,
agghindati con sciarpe, piumini, guanti e cappelli, comportano
ovviamente delle situazioni alquanto inconsuete. Turistica foto di rito
dinnanzi al cartello, aspettando pazientemente il proprio turno in
attesa che finisca una nutrita e rumorosa comitiva di thailandesi, che
immortalano l’evento rispettivamente ognuno con la propria fotocamera,
ed in qualsiasi posa possibile ed immaginabile, fino a quando, una
ragazza del gruppo, probabilmente impietosita, fa segno indicandoci ai
propri amici di farci passare: “farang farang”, ed ancora,
incoraggiandoci con le mani ad avvicinarci in prossimità del cartello
ripete: “farang farang”. Sì, grazie, siamo farang, è ovvio, anzi, come
scritto, probabilmente anche doppiamente farang in questo anomalo
contesto. Valentina è indubbiamente al centro dell’attenzione, e le
richieste di poter scattare delle foto assieme a lei diventeranno prassi
comune e consolidata in tutto il viaggio. Riprendendo la marcia,
sostiamo anche presso i due grossi chedi fatti erigere dall’Aeronautica
Reale Thailandese in onore dei sessantesimi compleanni del re e della
regina, le cui rispettive punte, raggiungibili tramite due ripide
gradinate, o più comodamente mediante apposite scale mobili, si
stagliano nel cielo terso, tagliando quasi simbolicamente la frizzante
aria di montagna. Nel parco esistono anche alcune belle cascate (nam tok
in thai), che visitiamo durante la nostra discesa dalla sommità. Le
Siriphum richiedono una breve passeggiata in salita per
raggiungerle, ma il gettito è scarso, e con il loro doppio salto sono
bensì indubbiamente più scenografiche viste da lontano. Presso le
Watchiratharn, invece sicuramente più maestose e scenografiche,
troviamo degli spartani posti di ristoro presi d’assalto da una miriade
di thai, e ne approfittiamo a nostra volta consumando uno dei nostri
piatti preferiti quale il piccante
moo pat ga-prao, squisito maiale
fritto con abbondante peperoncino e basilico locale, ovviamente
accompagnato dall’immancabile riso, a cui facciamo seguire
dell’invitante pollo che sta lentamente arrostendo su delle braci
assieme a grassi pezzi di maiale e ad alcuni piccoli rettili, che
dall’aspetto sembrano lucertole o gecki. Si pranza
lautamente al ritmo incalzante offerto dalla colonna sonora dettata dal
rumore scrosciante delle vicine cascate, su dei tavolacci e panche in
legno, ed in compagnia dei numerosi thai compiaciuti ed incuriositi da
noi, ma anche desiderosi di consigliarci come condire i nostri piatti
con la miriade di salse presenti. Farang farang.
Sarà probabilmente a causa dei recenti disordini politici che hanno
comportato per giorni la chiusura dell’aeroporto internazionale di
Bangkok, ma qui, e praticamente nel proseguo di questo viaggio al nord,
saremo sempre o quasi sempre gli unici farang, anzi, double farang, of
course.
Le Mae Klang, posizionate in basso, quasi a ridosso dell’entrata
del parco, sono altrettanto belle, sebbene non maestose come le
precedenti, ma valgono indubbiamente una visita e ci meravigliamo
vedendo alcune persone bagnarsi nelle gelide pozze create dal
sovrastante salto. Le Mae Ya Waterfall sono distanti dalla strada
principale che attraversa il Doi Inthanon, e pertanto generalmente non
annoverate nei classici circuiti turistici, ma ritengo la loro visita
irrinunciabile. Per raggiungerle si oltrepassano diversi campi coltivati
a soia, ed alcuni piccoli villaggi rurali la cui vita dei propri
abitanti sembra scorrere davvero lenta. Una volta arrivati in prossimità
dei parcheggi, alzando lo sguardo si riesce ad intravederle in
lontananza, circondate e seminascoste dall’adiacente vegetazione,
mentre ai lati della strada, anche qui sono presenti diversi chioschi
che arrostiscono vari tipi di carne, arachidi, e dei tuberi dal sapore
molto simile alle castagne. Un cartello indica che occorre camminare per
settecento metri in salita al fine di raggiungerle. Il sole però sta
quasi tramontando, e noi iniziamo ad avvertire anche i primi segni di
stanchezza, ma niente paura, siamo in Thailandia, dove talvolta a tutto
sembra esservi rimedio, tant’è che proprio all’inizio del sentiero
stazionano appositamente dei baldi giovani che, dietro lauto compenso
ammontante a dieci baht, poco più di venti centesimi di euro, sono
pronti a trasportarci in motorino lungo i cinquecento metri iniziali.
Una successiva breve passeggiata ci conduce quindi in prossimità delle
Nam Tok Mae Ya, dove restiamo davvero estasiati dinnanzi alla loro
innegabile bellezza.
Lasciamo di buon mattino Chiang Mai, percorrendo la statale 107 in
direzione nord.
La prima sosta della giornata viene effettuata in prossimità di Mae
Malai, dove ne approfittiamo per comperare della frutta presso un
mercato locale coperto, nel quale restiamo colpiti dalla nutrita
presenza di vari insetti fritti esposti in bellavista su delle foglie di
banano, pronti per essere venduti e riccamente consumati. Nel mercato
sono presenti anche numerosi banchi che vendono rispettivamente carne,
frattaglie, ortaggi, enormi sacchi di peperoncini, polvere di curry,
pesci vivi ed essiccati, varie pietanze cotte, pollo fritto, numerose
zuppe e quant’altro. Siamo ovviamente i soliti farang ficcanaso, quasi
delle mosche bianche in questo ambito, ma non mi muoverei mai da qui.
Imbocchiamo la statale 1095 verso ovest, la quale ci condurrà dopo circa
250 chilometri a Mae Hong Son, capoluogo dell’omonima provincia, dove
arriveremo in serata.
Nuovo stop alle Mork-Fa Waterfall, ubicate all’interno del Doi
Suthep-Pui National Park. Il posto è carino, completamente immerso in
una fitta vegetazione, e le graziose cascate sono impreziosite da un
piccolo arcobaleno presente alla fine del salto lungo una trentina di
metri. Dalle Mork-Fa in poi la strada mostra il suo aspetto reale,
trasformandosi in una sequenza interminabile di curve e tornanti che si
snodano attraverso un tipico paesaggio montano, nel quale appare
comunque non di rado qualche pianta tropicale. Interminabili salite,
curve a gomito, ripide discese, e poi ancora curve ed ancora curve,
lungo un continuo zigzagare reso ancor più impervio dalle inevitabili
code create in alcuni tratti dagli immancabili gitanti provenienti da
Bangkok, che sanno ben districarsi nel traffico caotico della propria
città, mentre mostrano una lentezza ed una prudenza fuori dal comune su
queste strade. Una stretta diramazione sulla destra ci conduce in sette
chilometri ai Geyser di Pong Duern, dove l’acqua bollente schizza
poderosa nell’aria generando enormi quantità di vapore. Continuiamo
quindi il nostro percorso lungo questa strada selvaggia ed a tratti
panoramica, che grazie al continuo intervallarsi di tornanti, salite e
discese, ricorda in determinati punti un interminabile giro in
ottovolante. Lungo il tragitto s’incontrano sovente delle stradine che
conducono presso alcuni villaggi appartenenti a diverse etnie,
comunemente denominate “tribù di montagna”. Hanno per lo più origini
seminomadi, essendosi trasferite da stati quali Cina, Laos, Tibet,
Birmania, nel corso degli ultimi due secoli, ma non appartengono di
fatto a nessuna nazione e continuano a mantenere tradizioni, lingua,
costumi e convinzioni spirituali proprie. Conducono esistenze alquanto
modeste, soprattutto se paragonate ad altre etnie thailandesi, e questo
è probabilmente imputabile al mancato riconoscimento della nazionalità,
sebbene il governo si sia prodigato in taluni casi per fornire loro
acqua, elettricità e scuole. Vivono per lo più di agricoltura, talvolta
producendo manufatti artigianali, in alcune circostanze grazie al fatto
di essere a loro volta diventati delle vere e proprie attrattive
turistiche, mentre nei casi dei villaggi più isolati e difficili da
raggiungere, probabilmente anche grazie alla reiterata ed ancora diffusa
coltivazione dell’oppio, malgrado si siano compiuti grandi sforzi per
bandirlo e convincere queste popolazioni a smettere di coltivarlo. Le
tribù presenti in zona appartengono alle sei principali etnie degli Akha,
dei Mien o Yao, dei Karen, dei Lahu, degli Hmong e dei Lisu.
Superata la cittadina di Pai, ed otto chilometri dopo Soppong, giungiamo
presso quella che rappresenta a mio avviso la più bella attrattiva della
zona, la quale giustifica da sola questo stancante ed interminabile
tragitto, ovvero la Tham Lod, un’enorme caverna calcarea
attraversata per circa seicento metri dal fiume Lang e percorribile a
bordo di alcune zattere di bambù. Sostiamo dapprima presso uno dei
rustici ristorantini ubicati in prossimità dei parcheggi, come sempre
letteralmente presi d’assalto dai numerosissimi turisti thai. Proviamo
quest’oggi il khao sawy, tipico piatto locale consistente in noodles
all’uovo conditi con dello speziato brodo di curry, a cui facciamo
seguire del succulento maiale arrostito. Sufficientemente satolli, siamo
dunque pronti ad ingaggiare una guida (obbligatoria) con apposita
lanterna a gas, che ci condurrà a visitare la grotta a bordo di una
zattera. Superato l’impatto iniziale, scivoliamo dunque lentamente
nell’acqua quasi inghiottiti dall’enorme caverna, mentre l’oscurità si
fa progressivamente più intensa e l’altissimo soffitto dell’ampia grotta
viene scarsamente illuminato di tanto in tanto dalle torce provenienti
dalle altre zattere. Insolite formazioni rocciose si alternano a
svariate stalattiti e stalagmiti, che hanno assunto negli anni
incredibili e bizzarre forme, mentre le strida dei numerosi rondoni e
pipistrelli presenti contribuiscono a conferire al tutto un aspetto
sinistro. In alcuni punti nel fiume la lunga pertica non è sufficiente a
far spostare la zattera, ed il barcaiolo deve pertanto calarsi in acqua
e trainarla con la forza delle proprie braccia. Lateralmente alla grotta
principale si trovano altre tre grandi cavità raggiungibili tramite
delle ripide scalinate, chiamate rispettivamente la Caverna della
Colonna per via di una stalattite lunga circa venti metri, la Caverna
delle Bambole per via dell’impressionante somiglianza di alcune
stalagmiti con delle bambole, e la Caverna delle Bare, così chiamata
poiché qui furono trovati i resti di una dozzina di bare in legno di
teak, sospese dal terreno di circa un paio di metri grazie a dei pali in
legno, alcune delle quali contenevano ancora ossa e vasellame. Queste
bare, la cui datazione al carbonio ha fatto risalire ad un periodo
compreso tra i 1200 ed i 2200 anni, appartengono secondo la gente del
posto ai Phi Man, gli spiriti della grotta, ed occorre aggiungere che
non sono state comunque rinvenute solo nella presente Tham Lod, ma anche
in molte altre delle oltre duecento caverne calcaree presenti in tutto
il distretto.
Quando raggiungiamo Mae Hong Son, è ormai buio da un pezzo. La
cittadina, fondata nel 1831 come campo di addestramento degli elefanti
catturati nella giungla limitrofa è davvero molto piccola, e si sviluppa
prevalentemente ai lati della Thanon Khunlum Prapat, la quale
l’attraversa da nord a sud. Il senso di assoluta quiete che vi si
respira, viene appena turbato durante le ore serali lungo le viuzze
ubicate intorno al piccolo lago Nong Jong, dove si concentrano banchetti
che espongono artigianato locale, ma, soprattutto, affollati chioschi
alimentari. Passeggiare qui è comunque gradevole, aggirandosi
spensieratamente tra le bancarelle, con lo sguardo incuriosito dalle
varie mercanzie esposte, tra profumi più o meno piacevoli e, come al
solito, nel ruolo ormai consolidato di double farang, mentre l’oscurità
del cielo viene rischiarata dalle fiammelle dei molteplici palloncini
aerostatici di carta, fatti partire con gesti propiziatori ed in segno
di buon auspicio dal vicino ed illuminato Wat Jong Kham, previa piccola
offerta da elargire ai monaci locali. I dintorni di Mae Hong Son
ospitano numerosi villaggi Shan e Karen, principali etnie nelle quali
viene annoverata la maggior parte della sua popolazione assieme ai Thai
Yai, ed a cui occorre comunque sommare anche il cospicuo numero di
numerosi profughi birmani aggregatisi nel corso degli ultimi anni,
letteralmente spinti oltre confine dall’inasprimento oppressivo
perpetrato loro dalla feroce giunta militare del paese limitrofo.
I luoghi circostanti offrono l’opportunità di effettuare delle
interessanti escursioni, transitando oltretutto lungo strade da cui è
possibile ammirare spettacolari scenari naturalistici. Visitiamo proprio
a ridosso del confine birmano il villaggio di Mae Aw, meglio
conosciuto come Ban Rak Thai, uno degli ultimi avamposti del Kuomintang
cinese e teatro di duri scontri in passato tra gli stessi disertori e
Khun Sa, il famigerato signore dell’oppio. La strada per raggiungerlo si
inerpica lungo una serie di tornanti e transita successivamente affianco
ad ampie porzioni di terreno coltivate a the e caffé, piantagioni che
hanno integralmente sostituito, perlomeno ufficialmente, l’oppio.
L’ufficio turistico di Mae Hong Son raccomanda di non spingersi facendo
trekking nei boschi circostanti il villaggio, poiché il rischio di
imbattersi in qualche narcotrafficante è comunque elevato e sovente si
verificano azioni di guerriglia. Nel villaggio, costituito da poche
modeste case in mattoni, ed alcune capanne in legno di bambù, spiccano i
cartelli raffiguranti gli ideogrammi cinesi, ed è presente uno sparuto
numero di ristoranti, i quali offrono prevalentemente la cucina tipica
dello Yunnan. Sono presenti, inoltre, varie botteghe che vendono
sacchetti di the, tra l’altro di buona qualità, come avremo modo di
appurare, ma anche qualche piccolo emporio che vende medicina
tradizionale. Per certi versi, sembra davvero di non trovarsi in
Thailandia. Continuando a costeggiare le colline birmane, raggiungiamo
tramite una strada strettissima ed articolata dapprima il villaggio Shan
di Ban Ruam Thai, letteralmente invaso dai gitanti thai che vi
hanno piantato le tende, e giungiamo successivamente alle cascate di
Pha Sua, che precipitano a strapiombo nella roccia calcarea creando
delle piccole pozze dove alcuni turisti locali stanno facendo il bagno.
La visita al parco nazionale di Tham Pla è invece alquanto
deludente, e la relativa grotta, considerata sacra e piena di carpe soro,
alcune delle quali dalle notevoli dimensioni, non rappresenta
francamente nulla di trascendentale. Anche qui, comunque, dividendo il
desco, abbiamo modo di familiarizzare con alcune famigliole thai, e
questo rappresenta ad ogni modo un aspetto positivo di questa visita.
Dalla località di Huai Deua, distante pochi chilometri da Mae
Hong Son, si può partire per un elephant trekking attraverso suggestivi
percorsi nella giungla limitrofa, oppure, più semplicemente, ci si può
imbarcare come facciamo noi a bordo di alcune long tail, per effettuare
una gita lungo il fiume Pai, fino al confine birmano. La maggior parte
dei visitatori giungono fino a Mae Hong Son attratti soprattutto dai
villaggi abitati dai profughi Paduang, nei quali vivono le cosiddette
“donne giraffa”. La loro questione è stata spesso al centro
dell’attenzione e rimane dibattuta ed assai controversa. Taluni
sostengono che la visita a questi villaggi contribuisca esclusivamente a
mantenere integre le tradizioni e la cultura dei Paduang, i quali
possono mantenersi autonomamente grazie agli introiti derivanti
dall’afflusso turistico; altri, asseriscono che queste donne continuano
a perpetrare queste anacronistiche usanze che stavano progressivamente
sparendo, esclusivamente in virtù del denaro, e che se fosse invece loro
concesso di sostenersi tramite agricoltura od altro, come è stato
permesso in altri villaggi a differenti gruppi etnici, avrebbero da
tempo abbandonato l’usanza di indossare il lungo collare che gli
comprime le clavicole e la cassa toracica.
Non pretendo di essere il portatore della verità, e pur rispettando le
opinioni di tutti, il mio personale modo di concepire il viaggio mi dice
di proseguire con la barca oltre questo villaggio simil recluso, il cui
accesso ai visitatori ammonta a 300 baht. Non voglio pagare per vedere
delle persone. Non voglio che delle persone vivano per farsi vedere e
fotografare da me, riducendo la loro secolare cultura ad un mero
fenomeno da baraccone. Saremo pertanto probabilmente tra i pochi
visitatori ad esser giunti fin qui senza aver visto una sola “donna
giraffa”, le cui foto abbondano negli opuscoli e nei libri fotografici
di mezzo mondo, oltre ad essere sovente utilizzate anche dall’ente
turistico thailandese, il quale avrà tutto l’interesse di preservare la
loro cultura, nonché di far convogliare da queste parti il turismo.
La barca arresta la sua corsa in prossimità di un ponte, aldilà del
quale inizia la Birmania.
Anche qui è presente un villaggio di profughi, presso il quale
sbarchiamo per una breve sosta e dove ci colpiscono immediatamente dei
cartelli che indicano il pericolo di contrarre la malaria. Ci vengono
incontro dei bambini, con cui Valentina inizia velocemente a
familiarizzare con gesti e sorrisi spontanei. Beati i piccoli, secondo i
quali non esistono confini, razze e pregiudizi. Successivamente questi
bimbi vanno a prendere delle torce e ci chiedono pochi baht per
accompagnarci ad esplorare una grotta limitrofa. Tenerezza a parte,
apprezzo molto il loro modo di provare a guadagnare offrendo un servizio
in cambio, cercando sì di vivere grazie al turismo, ma in maniera
dignitosa. La grotta, che raggiungiamo con le nostre “guide” tramite una
ripida scalinata ed un’ardua discesa lungo dei gradoni scavati nel
terreno molle si dimostra interessante, con all’interno alcune belle
stalattiti e due statue raffiguranti rispettivamente Buddha ed un Rishi
Hindu, riccamente adornate da bastoncini d’incenso. Nessun opuscolo la
pubblicizzerà mai, né mai figurerà tra le attrattive di Mae Hong Son,
eppure la semplicità, l’entusiasmo, il sorriso, e gli occhi dolci di
quei bambini possono giustificare da soli un viaggio, e costituire
facilmente uno di quei tanti perché di cui ho scritto all’inizio di
questo racconto.
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Benedetto Antonucci -
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