Cuba 2003

Un sogno può avverarsi. Così, ad esattamente otto anni di distanza, nell'agosto 2003 siamo tornati a Cuba, un'isola che ci era rimasta nel cuore e che anche stavolta, ha saputo regalarci delle emozioni forti. Di seguito riporto il resoconto del mio recente viaggio. Naturalmente, non sono in grado, e non intendo fornire una sorta di guida sull'isola di Castro. A chi è interessato a tutti gli aspetti pratici, consiglierei l'acquisto di una delle esaurienti guide cartacee disponibili presso tutte le librerie, o di consultare uno dei tanti siti presenti sul web, alcuni dei quali, sono decisamente ben fatti. Mi limiterò pertanto a raccontare il mio particolare viaggio (particolare, perché effettuato "fai da te" con una bimba di due anni e mezzo), e le mie personali impressioni e sensazioni, riscontrate percorrendo poco meno di 2000 chilometri sulle strade cubane.

 


- Il mio racconto di viaggio -

Cuba, te quiero


Casa particular. Queste, sono in assoluto le due parole più pronunciate a bordo del Boeing 767 che, a distanza di otto anni, sta riportandoci all’Havana. Case particular dunque, oggetto dei desideri dei tanti passeggeri a bordo, destinato però, nella maggior parte dei casi, a rimanere tale. Già, perché ci troviamo in agosto e nella settimana di ferragosto, giorni solitamente in cui, la diaspora annuale degli italiani verso Cuba assume proporzioni quasi da record, o comunque tali, da non poter garantire una casa privata per tutti, considerato anche che l’isola, ormai consacrata al turismo, che a questo punto rappresenta sostanzialmente la prima entrata nelle disastrate casse statali, ospita costantemente visitatori provenienti un po’ da tutto il mondo. Noi stessi, avendo deciso di tornare nell’Isla Grande quasi in extremis, prendendo dal cassetto un vecchio progetto di viaggio, abbiamo dovuto optare per un tradizionale hotel, essendo andati a vuoto i tentativi di prenotare una casa particular, malgrado potessimo contare su decine e decine di indirizzi utili, ma si sa che in questi casi contano molto la fortuna, ed ancor più i giusti agganci, due elementi che noi, probabilmente, non abbiamo avuto. Sul volo, sono in molti dunque ad esser sprovvisti di una prenotazione presso una casa particular, di fatto il modo più economico per soggiornare a Cuba, ma sono altrettanti quelli però speranzosi di trovar qualcosa appena giunti sull’isola, soluzione che, viaggiando con una bambina di due anni e mezzo, noi abbiamo comunque scartato a priori. Ma la ricerca inizia già sull’aereo, considerato che queste due parole echeggiano magistralmente con costanza da sedile in sedile, ed ecco quindi, che salgono in cattedra i veterani, che estraggono con maestria dal nulla i “propri indirizzi”, ovviamente a loro dire esclusivi. A memoria ne riconosco qualcuno, pertanto so che sarà completamente inutile recarvisi, ed inoltre, come spesso accade in questi casi, gli stessi vengono annotati da più di una persona. Il volo procede comunque bene, e Valentina si comporta in maniera esemplare, trasformando in un ricordo sbiadito, il precedente ed “articolato” viaggio aereo effettuato lo scorso anno. Lascio volentieri la visione dei sempre divertenti episodi di Mr. Bean, per assistere ad un film di Verdone, solo che lo stesso non viene proiettato sugli schermi, ma si svolge dal vivo. Sì, perché tra i tanti “veterani” dell’isola, smaniosi di dispensare consigli a tutto l’aereo, uno sembra uscire direttamente da una pellicola del regista romano. Ha ormai radunato all’altezza dei bagni una piccola folla di spettatori attorno a se, ed è partito con il suo autentico show, in cui, tra una toccata di genitali e l’altra, ed un’occhiata da predatore all’hostess di turno, racconta con sagacia che si reca puntualmente a Cuba da oltre un decennio, dove ovviamente è conosciuto ed amato da tutti. Via dunque con la narrazione di epiche vicende, e con gli indirizzi a go-go di case particular, autorizzate e non…, paladares, discoteche, numeri telefonici di mezza Havana. “Tranquilli” aggiunge, “basta solo dire che… vi mando io” ! Tra una risata e l’altra, arriviamo comunque finalmente all’Havana, con tanto di applauso kitch all’atterraggio, tra l’altro incredibilmente iniziato dallo stesso equipaggio. Solite formalità doganali, con l’addetta di turno che ti squadra minimo dieci volte, confrontando ripetutamente il tuo volto con la fotografia sul passaporto e chiedendoti di guardarla fissa negli occhi, ma finalmente è Cuba, e ci riversiamo immediatamente nelle sue strade, dove nulla sembra esser cambiato da otto anni a questa parte. Solite splendide auto d’epoca più o meno fatiscenti, autobus e camion strapieni di gente, cartelloni colorati inneggianti la “Revolucion”, qualche bella palma a fare da contorno. Passano gli anni, ma l’impressione è sempre la stessa, si viene come per incanto catapultati in un mondo dove il tempo sembra essersi fermato. Poi, ecco apparire ripetutamente lungo il percorso il volto del “Che”, rimasto poco più che trentenne nei manifesti del regime, proprio come venne immortalato da Korda poco dopo il sabotaggio e conseguente esplosione della nave francese La Coubre. In quest’epoca, in cui probabilmente siamo rimasti solo io e Minà a credere alla rivoluzione castrista, nella quale il “lider maximo” mostra inesorabilmente il peso degli anni sulla sua lunga barba grigia, il “Che” è rimasto sempre uguale, anche per gli stessi cubani. Lui sembra incarnare il padre buono della rivoluzione, con quell’eterna espressione corrucciata e la stella sul suo basco, divenuti un’inconfondibile simbolo di speranza in ogni parte del mondo, ma anche un’icona troppo sfruttata da esporre con disinvoltura, se non un business per molti, anche qui, nella stessa Cuba, ormai radicalmente trasformata rispetto agli intenti rivoluzionari. Valentina, durante il tragitto in taxi dall’aeroporto all’hotel crolla inevitabilmente sotto il peso schiacciante del fuso orario, e si sveglierà solo all’indomani, mentre noi, sebbene ci sentiamo stanchi, proprio non ce la facciamo a metterci a nanna, pertanto la mettiamo sul passeggino, ed usciamo a passeggiare sul Malecon e lo facciamo sulla parte che prediligo del lungomare habanero, quella che va dalla Rampa in direzione di Miramar, la parte un po’ meno turistica, dove si può ancora passeggiare per centinaia di metri, senza che qualcuno ti avvicini proponendoti qualcosa. Finalmente troviamo un po’ di frescura. Sembra paradossale, ma, chi in futuro si ricorderà dell’estate italiana del 2003, ricorderà senz’altro le altissime temperature da record e l’elevato tasso di umidità, tanto che per noi, passeggiare ora sul lungomare dell’Havana durante la stagione umida, accarezzati dalla brezza proveniente dal mare, significa veramente trovare del refrigerio rispetto a come eravamo abituati nei recenti mesi in Italia. Passeggiamo dunque fino al tramonto, in quel tranquillo tratto di Malecon, tra fidanzatini, famiglie e gruppi di amici, dove le bottiglie di ron fanno bella mostra di sé sul muretto che accompagna il lungomare, accanto a delle scatolette di cartone con la scritta “Pollì”, le quali contengono dei pezzi di pollo fritto, prodotti in una sorta di fast-food presente dall’altra parte della strada, segno che qualcosa è inevitabilmente cambiato rispetto alla nostra precedente visita, così come il sempre colorito traffico locale, a cui si sono aggiunti i “coco-taxi” delle specie di api tre ruote, ed i “ciclo-taxi”, che molto ricordano i classici risciò a pedali asiatici.

Pioggia. L’indomani il nostro risveglio è allietato da una pioggia scrosciante, pioggia che a Roma non contemplavamo da circa quattro mesi, e la cui visione, pertanto ci appare quasi come un qualcosa di sorprendentemente inconsueto. Oggi dobbiamo provare a concretizzare la prima parte del nostro itinerario teorico, cercando di prenotare per i prossimi tre giorni l’unica struttura ricettiva di Maria la Gorda, località situata nell’estrema parte ovest dell’isola, ma le nostre aspettative vengono quasi subito stroncate dall’esito negativo della telefonata effettuata dall’impiegato del burò turistico dell’hotel. Tutto pieno per i prossimi giorni. Inoltre, secondo quanto egli ci dice, pare anche che sia praticamente impossibile trovare un’automobile a noleggio in tutta l’Havana in questi giorni, e sembriamo quindi destinati a pagare pesantemente lo scotto della mancanza di prenotazioni in un periodo turistico di punta, quale appunto agosto. Pensiamo di correre il serio rischio di restare bloccati all’Havana per qualche giorno, mandando quindi a monte l’itinerario studiato sulla carta. In alternativa, dovremmo necessariamente muoverci con gli autobus della Viazul, ma non sarà certo facile con la bambina piccola al seguito, ed in ogni caso, non avremo mai la stessa autonomia che ci garantirebbe un’automobile. Decidiamo quindi di concentrarci prevalentemente sulla ricerca di una macchina a noleggio, ed iniziamo a setacciare le varie sedi delle principali agenzie dell’Havana, quali la Cubacar, la Micar, l’Havanautos, oltre ad altri piccoli autonoleggi consigliatici dall’autista del coco-taxi con il quale ci stiamo spostando, ma il risultato sarà identico e constateremo l’assoluta mancanza in città di auto disponibili. Sconsolati, ci facciamo condurre nell’Havana Vieja, ed iniziamo a passeggiare tra i suoi vicoli, provando a sondare anche le filiali degli autonoleggi presenti nei vari alberghi della città vecchia, come l’Inglaterra, il Parque Central, il Sevilla, ed il Plaza. Com’è cambiata la bella Calle Obispo. La lunga e stretta via presenta sempre lo stesso andirivieni di persone,

un vero e proprio crogiolo razziale, breve sintesi culturale della stessa Cuba, ma è contornata da negozi di vario genere, che vendono in dollari, e di conseguenza riservati ai facoltosi turisti, e questa per noi rappresenta un’assoluta novità, ricordandoci di un’Havana praticamente senza vetrine. I bar per turisti in cui vengono serviti mojito e daiquiri a volontà si sono praticamente triplicati, così come sono spuntate alcune piccole gelaterie, e delle specie di fast-food in versione locale, che prediligono la vendita di bocaditos con jamon y queso, o pizza, e sono comunque frequentati molto anche dagli stessi cubani, segno evidente di una lenta, difficile, e piccola modernizzazione, che ad ogni modo, agli occhi del turista, appare comunque in stridente contrasto con i caratteristici e colorati mercados agropecuarios statali, che incontriamo nelle vie limitrofe, dove acquistare qualche chilo di frutta, costa solo qualche pesos, moneta il cui possesso è ufficialmente illegale per i turisti, che possono acquistare esclusivamente in dollari statunitensi. Si è fatta ora di pranzo, e su consiglio di un paio di persone incontrate per strada, ci rechiamo in un paladar nelle vicinanze, classico ristorante privato, la cui esistenza era ovviamente nulla nel corso della nostra prima visita, dove tutto era a gestione statale. Chiamarlo ristorante è forse un’esagerazione. Il locale, piuttosto piccolo, è anche un po’ troppo tetro per i miei gusti, ma il servizio è ottimo, così come il menu che ci viene proposto, costituito da generose porzioni di riso, platanos fritte, papaya e pollo, che sembra riscontrare anche il favore di Valentina, la quale si è fortunatamente finora ben adattata. Annaffiamo il tutto con una ghiacciata Bucanero forte, ed i nove dollari a testa che spendiamo, tutto sommato ci sembrano un prezzo equo. Dopo pranzo entriamo nell’hotel Ambos Mundos, dove soggiornò per qualche tempo anche Heminghway, e che trovammo chiuso per restauro durante la nostra visita del ’95. Ci avviciniamo al banco della Cubacar, dove ci dicono che da lì a breve dovrebbe rientrare una macchina. Aspettiamo quindi fiduciosi, ingannando il tempo con un mojito presso il bar, dove un’abile pianista contribuisce a creare una piacevole atmosfera, ma la nostra attesa sarà vanificata dalla sfortuna. Effettivamente, in breve tempo l’auto rientra alla base, ma è danneggiata all’impianto elettrico e non possono quindi noleggiarcela. Ci dirigiamo dunque nella vicina piazza della Cattedrale, caratterizzata dalla solita folla di turisti, e dalla ritmata musica cubana che echeggia nell’aria,

suonata magistralmente dai complessini che si esibiscono presso il ristorante El Patio. Nonostante il rammarico per non aver trovato ciò che cerchiamo, sono contento di passeggiare per le vie dell’Havana Vecchia, che tanto mi avevano affascinato nel corso della nostra prima visita. Mi è sempre piaciuto tornare nei posti visitati e girare senza una meta precisa, infilandomi casualmente nei vicoli, semplicemente perché ne sento l’istinto e non perché so che esiste in essi una particolare attrazione da visitare. L’Havana Vieja ben si presta a tutto ciò, ed ogni viuzza sembra divertirsi a riservarci uno scenario diverso, che va dal gruppo di anziani che giocano appassionatamente a domino, ai rumorosi bambini che inseguono scalzi la pelota, dalle interminabili file presso il caratteristico negozio statale, dove si paga ancora con la “libreta”, al barbiere del barrio, con le sue finestre senza vetri che danno sulla strada. In verità, mi aspettavo di trovare questo quartiere più ristrutturato, di poter finalmente ammirare questi vecchi palazzi in tutto il loro antico splendore, ma debbo prendere atto, che la ristrutturazione ha riguardato solo una minima parte della vecchia Havana. Quando, ormai sconsolati passiamo nuovamente davanti alla Cattedrale, e, dirigendoci presso il canale, ci accingiamo a lasciare il quartiere, ecco che inaspettatamente la fortuna sembra bussare alla nostra porta. A pochi passi dalla Cattedrale, troviamo infatti la Fenix SA, una società che si occupa di trasporti pubblici, nonché della gestione dei parcheggi nell’Havana vecchia, ma quello che più ci colpisce, è la bella scritta in evidenza sulla sua insegna, che recita “renta de autos”. Entriamo quindi nell’ufficio, provando a chiedere eventuali disponibilità e, con nostra grande sorpresa, ci dicono che hanno due autovetture pronte, sebbene siano già prenotate per la giornata odierna. In sostanza, se entro le quindici non verranno a ritirarle, potremo noleggiarle. Incrociamo le dita e continuiamo quindi a girare per l’Havana Vieja per una buona mezz’ora, sperando che la dea bendata si decida a venirci finalmente incontro. Passiamo davanti alla storica Bodeguita del Medio, che, come al solito, troviamo

traboccante all’inverosimile di turisti desiderosi di assaggiare il rinomato mojito, mentre constatiamo che nelle vicinanze, sono sorti in questi anni alcuni negozietti che espongono artigianato locale, ed in uno di essi, per la felicità di Valentina, acquistiamo una bambolina di pezza. Sono trascorsi dieci minuti dalle quindici, quando, fiduciosi, varchiamo nuovamente la soglia dell’ufficio della Fenix SA. Una delle due auto è stata nel frattempo ritirata, ma l’altra è libera, e possiamo dunque noleggiarla. Si tratta di una Toyota Corolla, in una versione un po’ diversa da quelle vendute in Italia, in quanto berlina. Il suo costo è però abbastanza alto, 65 dollari al giorno, a cui vanno aggiunti altri 15 dollari giornalieri per l’assicurazione (seguro), ed è probabilmente il noleggio più caro che abbia mai pagato in giro per il mondo, e sicuramente quello con il peggior rapporto qualità-prezzo. Esaminiamo quindi con cura l’auto, constatando l’effettivo funzionamento dei suoi accessori e lo stato del battistrada dei pneumatici, che giudichiamo buono, dopodiché firmiamo questo “oneroso” contratto, prendendo possesso della vettura per un paio di settimane. Esco quindi dalla vecchia Havana e percorro a senso inverso il Malecon in direzione del Vedado, fino ad imboccare sulla sinistra la “Rampa”, facilmente riconoscibile per la maestosa sagoma dell’hotel Nacional, che si erge maestoso

sulla destra della sua parte iniziale. Parcheggio poco dopo, nelle immediate vicinanze dell’Habana Libre. Ci rechiamo presso l’Havana Tour, agenzia di viaggi dove otto anni fa prenotammo il nostro soggiorno a Cayo Largo, ma in quella sede, momentaneamente si occupano solo di biglietteria aerea, pertanto ci consigliano di recarci proprio nella hall dell’Habana Libre, dove sono dislocati diversi stand turistici. Qui conosciamo Jaiqueline, una squisita signora cubana, dotata di una gentilezza più unica che rara, la quale si prodiga non poco, per trovarci un alloggio a Maria la Gorda nei prossimi giorni. Alla fine, mentre Valentina le ha praticamente messo a soqquadro la scrivania e semidistrutto una mezza dozzina di opuscoli, Jaiqueline uscirà vincente dai suoi colloqui telefonici, sebbene non potremo recarci domani sul posto, come ci auspicavamo, ma tra un paio di giorni, che decidiamo comunque di spendere nei paraggi di Viñales, la quale si trova esattamente a metà strada. Memori della recente esperienza, e timorosi di dover dormire addirittura in macchina nel piccolo paese in provincia di Pinar del Rio, prenotiamo anche l’alloggio in loco, così come riserviamo le ultime quattro notti a Cayo Santa Maria, nella provincia di Villa Clara, mentre lasciamo libera da prenotazioni la parte centrale del viaggio, in maniera tale da poter giostrare l’itinerario a nostro piacimento, essendo liberi da vincoli, e confidando anche nel fatto che forse, al di fuori delle rotte più battute, si avranno meno difficoltà. Usciamo quindi dall’Havana Libre, attraversando rapidamente la Calle 23 per recarci nella gelateria Coppelia, uno dei simboli stessi dell’Havana, dove la fila di clienti locali è come sempre interminabile, e direi quasi pittoresca. Ovviamente prendiamo un gustosissimo gelato ai frutti tropicali, come non approfittarne… ma assaggio anche la squisita almendra, la quale sembra andare davvero a ruba tra la gente del posto. La sera, appena rientrati in albergo, Patrizia e Valentina crollano letteralmente in un sonno profondo, senza nemmeno cenare. Abbiamo vissuto davvero un’intensa giornata, ed evidentemente non hanno ancora sufficientemente smaltito il cambio di fuso orario. Dopo una veloce doccia, scendo in solitudine a metter qualcosa tra i denti, dopodiché mi reco al bar, dove mi lascio andare ad un paio di mojito, ed intraprendo una piacevole conversazione con un ragazzo francese. Aleandra, la ragazza che prepara i cocktail, ha sicuramente una dote, quella di tenere la bottiglia a testa in giù per un discreto periodo di tempo, conferendo alle sue bevande una gradazione alcolica indubbiamente sopra la media. Il bar è abbastanza gremito, ed ovviamente non mancano un paio di sorridenti ed ammiccanti jineteras, le quali sperano chiaramente di trovare qualche turista che possa realizzare i loro sogni. Dalla confidenza che hanno con la barista, si capisce comunque che tra loro si conoscono, e quasi certamente, per poter tranquillamente stazionare da quelle parti, avranno dovuto elargirle anche qualcosa, così come avranno fatto lo stesso con il portiere dell’hotel. Provano ogni tanto a lanciare qualche occhiata veloce, condita da un meno nascosto sorriso ai vari avventori, ma non si sbilanciano più di tanto, in quanto, avranno di certo avuto il permesso per poter sedere al bar, ma anche l’ordine tassativo di non disturbare i clienti. In sostanza, stanno lì ed aspettano, ben consapevoli che qualcuno prima o poi si avvicinerà loro, come in effetti soventemente avviene. Beh, già che ci sono, prima di recarmi in camera procedo comunque con il terzo mojito. All’affollato bar arrivano nel frattempo un altro paio di ragazze locali, una delle quali si viene a sedere proprio vicino a me, anzi, prima mi chiede anche il permesso, aggiungendo un deciso quanto ironico “no te molesto”. Avrà a malapena diciotto anni, ma appare decisa nei gesti, nonché molto smaliziata, ed è di una bellezza davvero notevole, da farti girare la testa. Effettivamente, all’inizio non pronuncia parola, ma in qualche modo deve aver deciso che stasera lo yuma di turno sono io, ed inizia a provocarmi. La carne, come si sa è debole, ed il ron che Aleandra ha sapientemente distribuito nei vari mojitos inizia ad annebbiarmi la vista, ed a rendermi stranamente euforico. Meglio pertanto battere in ritirata, ho due donne che mi aspettano in camera, che per nessuna ragione al mondo vorrei deludere, e poi, domani inizia il viaggio, quello vero.


Havana/Viñales - 190 Km.

Oggi, si parte dunque alla volta della provincia di Pinar del Rio. Dopo aver fatto rifornimento di “agua mineral sin gas”, percorriamo il Malecon in direzione Miramar e, dopo aver superato il tunnel, continuiamo sulla quinta avenida in direzione dell’autopista per Pinar del Rio. Constatiamo da subito la totale assenza o quasi di segnaletica stradale, tanto da indurci ad iniziare una pratica che ci accompagnerà per tutto il viaggio, quella di accostarci e chiedere informazioni ai passanti di turno. Seguiamo quindi le indicazioni per prendere l’autopista, e, qualche chilometro prima di arrivare allo svincolo, ad un semaforo carichiamo a bordo un ragazzo, che ci chiede un passaggio proprio fino alla diramazione. Si chiama Rolando, e viene una volta al mese da Pinar, per sostenere degli esami all’Havana. Intraprendiamo una piacevole conversazione con lui, e ci fornisce diversi consigli pratici da adottare mentre si guida sulle strade cubane, consigli che, come avremo modo di constatare in seguito, ci torneranno più che utili. Essendo egli stesso diretto a Pinar del Rio, decidiamo di continuare il tragitto assieme a lui, informandolo però, che lo avremmo lasciato in prossimità dello snodo per Soroa, località che vorremmo visitare in giornata. Accetta di buon grado, considerato che per lui sarebbe già un grosso risultato percorrere comodamente qualche decina di chilometri. Infatti, come abbiamo modo di appurare subito dopo aver imboccato l’autopista Havana-Pinar del Rio, il modo più diffuso tra i cubani per spostarsi all’interno del paese, è quello di effettuare l’autostop. Ecco quindi, che durante il tragitto superiamo numerosi camion, sul cui cassone sono stipate all’inverosimile decine e decine di persone, così come, in prossimità dei numerosi ponti disseminati lungo l’autopista, si accalcano delle vere e proprie folle in attesa di ricevere un passaggio dal prossimo camion. Una situazione per loro del tutto normale, ma che appare ai nostri occhi quasi come drammatica. Fa infatti uno strano effetto vedere tutta quella gente sotto un ponte, mentre aspetta pazientemente un camion a cui chiedere un passaggio, e lo aspetta quasi come fosse una sorta di manna dal cielo, mentre fa ancor più effetto vedere tra quella gente numerose famigliole, costituite anche da bimbi piccolissimi. Lo ripeto, non si tratta di poca gente, ma di vere e proprie folle, e sfrecciare davanti a loro con la nostra bella auto a noleggio, il cui costo per un sol giorno equivale quasi ad un anno del loro salario, ci fa sentire senza ombra di dubbio dei privilegiati e ci mette inevitabilmente di cattivo umore. Arriviamo allo svincolo per Soroa, ma decido di proseguire diritto, oggi non me la sento di lasciare Rolando sull’autopista, sebbene so che per lui costituisca un’abitudine. Penso inizialmente di visitare domani la zona attorno a Soroa, ma quando leggo su uno dei rari cartelli stradali, che lo svincolo dista più o meno 90 chilometri da Pinar del Rio, capisco che sicuramente salterò la visita di questa località e sinceramente, non me ne faccio un cruccio. L’autopista è in discrete condizioni, sono infatti poche le buche che incontriamo durante il percorso, ed inoltre, in certi punti la stessa presenta addirittura tre corsie per ogni senso di marcia, tanto da renderla una strada piuttosto veloce. Tra l’altro, il traffico è praticamente inesistente, eccezion fatta per qualche camion, e qualche vecchia automobile anni ’50, che comunque transitano sulla destra, molto lentamente. La zona in cui ci stiamo addentrando è dedita all’agricoltura, ed il paesaggio che attraversiamo è costituito da immense piantagioni di banane e canna da zucchero, ma soprattutto di tabacco. Spesso, ai margini della strada stazionano dei contadini, che tentano di sbarcare il lunario vendendo agli automobilisti delle trecce d’aglio, ed anche alcuni tipici dolci locali, composti da formaggio e guayaba. Rolando dice di essere favorevole al governo, poiché anche un ragazzo di origini contadine come lui può permettersi di frequentare l’università dell’Havana, ma al tempo stesso ammette di essere poco felice dell’attuale situazione di Cuba, perché sa che non avrà mai la possibilità di acquistare un’automobile, e nel suo discorso, c’è un po’ l’essenza del malcontento dei giovani cubani. Dopo un paio d’ore, entriamo dunque a Pinar del Rio attraversandola, ed accompagniamo il giovane presso la sua casa, che si trova comunque fuori città. Perdiamo molto tempo, dovendo percorrere qualche chilometro sulla stretta carretera central, a quest’ora completamente intasata da camion e carri trainati da buoi. Qui, Cuba manifesta tutto il suo carattere rurale e lo scenario che si manifesta ai nostri occhi, è costituito prevalentemente da immense coltivazioni di tabacco, che sembrano estendersi all’infinito. Dopo aver salutato Rolando, percorriamo la strada a ritroso, ma, a causa dell’assoluta mancanza di segnaletica, poco dopo essere entrati in città, finiamo inevitabilmente per perderci tra le stradine a scacchiere di Pinar, ed i numerosi sensi unici, stentando a trovare la giusta direzione per Viñales. Come sempre, chiediamo informazioni ai passanti, ed un giovane ragazzo dice di andare proprio in quella direzione, per cui lo carichiamo a bordo. Grazie al suo aiuto, dopo aver svoltato svariate volte a destra, ed altrettante a sinistra, e dopo essersi fermati ripetutamente davanti a qualche segnale indicante “alto” o “ceda el paso”, imbocchiamo quindi rapidamente la strada giusta. Il giovane ci chiede però di scendere subito dopo, a dimostrazione che non doveva certo andare da quelle parti, ma aveva intuito la possibilità di guadagnare facilmente qualcosa, in cambio del suo servizio. Gli regaliamo effettivamente un dollaro, che da queste parti rappresenta comunque una somma discreta. Percorriamo dunque i 25 chilometri che separano Pinar del Rio da Viñales, su una strada in salita caratterizzata da numerosi tornanti, dove il paesaggio muta rapidamente, tanto che, lungo il percorso, la classica vegetazione tropicale lascia il posto a numerose foreste di pini. Poi, quattro chilometri prima di giungere al paese, un cartello indica sulla sinistra la svolta per l’hotel Los Jasmines, che raggiungiamo brevemente, prendendo possesso della nostra camera. L’hotel, frequentato prevalentemente da una clientela sudamericana, è decisamente poco attraente, così come la stanza che ci viene assegnata, molto spartana, scura ed angusta, che secondo me non regge assolutamente il confronto con le camere delle case particular di Viñales, o perlomeno, con quelle che avremo modo di visitare in seguito, le quali costano tra l’altro circa un terzo, ma possiede la caratteristica unica di avere un terrazzino che si affaccia direttamente sulla Valle di Viñales, e l’hotel è ubicato nel miglior punto possibile da cui contemplare la Valle stessa. Insomma, aprendo la finestra, si assiste ad spettacolo davvero unico. La “cartolina” che si presenta ai nostri occhi, è infatti composta da una serie innumerevole di “mogotes”, grosse collinette di pietra calcarea dalla forma arrotondata e coperte di vegetazione, che sembrano sbucare dal nulla nel mezzo di questa immensa valle caratterizzata da varie tonalità di verde, in cui è possibile distinguere con facilità dei piccoli appezzamenti di terreno coltivati a tabacco, nei pressi dei quali ci sono alcuni “bohìos”, le classiche casette dei contadini dal tetto in paglia, nonché alcuni bovini al pascolo. In mezzo a questo scenario, trapiantata quasi per caso, si erge maestosamente qua e là qualche imperiosa palma reale.

Posati i bagagli in camera, riprendiamo l’auto e ci dirigiamo quindi alla volta del paese, che raggiungiamo brevemente, voltando a sinistra, in direzione de El Moncada. Pochi chilometri dopo, troviamo sulla destra la svolta per El Mural de la Preistoria. Qui, sul fianco del mogote Dos Hermanas, il pittore Leovigildo Gonzales, allievo del muralista messicano Diego Rivera, ha dipinto in circa dieci anni questo gigantesco murale, lungo pressappoco 180 metri, il quale raffigura la preistoria della regione. In diversi colori sono raffigurate delle enormi lumache, dei dinosauri e degli uomini, ma personalmente trovo il posto poco piacevole, e comunque non meritevole del dollaro procapite richiesto per accedervi. Riprendiamo quindi la breve strada verso Viñales, fermandoci però spesso lungo il percorso, per assistere estasiati a delle scene di vita contadina d’altri tempi. Numerosi carri trainati da buoi, svariati calessi,

gente a cavallo con tanto di enorme sigaro in bocca e capellone in stile cow-boy, e poi i molteplici “bohìos” nei pressi delle tante piantagioni di tabacco e canna da zucchero, mentre a breve distanza dai lati della strada, si susseguono palme, piccole costruzioni dal tetto in paglia in cui essiccare il tabacco, bovini al pascolo, maiali, e numerosi bambini pronti a salutarti e regalarti un sorriso non appena li guardi. Non c’è che dire, questa valle è un posto davvero unico.

Così come troviamo molto carino il paesino stesso di Viñales, costituito prevalentemente da basse casette ad un piano, per la maggior parte colorate di celeste o rosa pastello, dove ci fermiamo per una buona mezz’ora a passeggiare,

restando favorevolmente colpiti dalla tranquillità che vi si respira. Riprendiamo quindi la marcia, visitando rispettivamente la Cueva de Viñales, una bella grotta all’interno di un mogote, visitabile tramite un lungo sentiero, ed al cui interno è stata ricostruito un villaggio Tajno, e la Cueva del Indio, altra grotta, visitabile per una parte tramite un tracciato in cui sono presenti numerose stalattiti, e per l’altra in barca, che naviga per alcune centinaia di metri lungo un fiume sotterraneo, che scorre al suo interno. Il posto è carino, peccato solo che, dopo aver percorso per proprio conto a piedi buona parte della grotta, che reputo comunque affascinante, considerate le molte stalattiti presenti, e lo svolazzare di qualche pipistrello, che comunque crea la giusta atmosfera, si viene prelevati da una barca per navigare il fiume sotterraneo, barca sì, ma a… motore, che in sol colpo rovina la suddetta giusta atmosfera, nonché l’idea stessa che ci eravamo fatti della grotta, abitata un tempo da indios. All’uscita veniamo sorpresi da un temporale di proporzioni bibliche. Patrizia e Valentina mi aspettano presso il locale punto di ristoro, mentre io mi avvio a prendere la macchina e lo faccio molto lentamente. Dopo gli ultimi quattro mesi di assoluta siccità vissuti in Italia, trovo che sia davvero gradevole passeggiare sotto la pioggia, anche se in poco meno di un minuto mi ritrovo letteralmente fradicio. La sera ceniamo a Viñales, presso il ristorante La Casa de Don Tomàs, dove assaggio la specialità locale, che mi viene presentata in un’enorme pentola di coccio contenente del riso, cotto assieme a salsiccia, aragosta, uovo, pollo, maiale, oltre a qualche varietà di salame. In sostanza, un untissimo piatto rossiccio per palati forti ed appetiti robusti, quale appunto il mio di stasera, tanto che non lascio la benché minima traccia della pietanza in questione. Dalla finestra della nostra stanza si vede ormai solo il buio, ma è puro piacere addormentarsi a qualche decina di metri da questa magica valle.


Viñales/Cayo Jutìas/Viñales – 120 Km.

Il mattino successivo, alle 6 sono già in piedi. L’aria è frizzante e Viñales si diverte a regalarmi uno scenario incredibile. La base delle montagne in lontananza, è infatti avvolta da una spessa coltre di nebbia, che copre

parzialmente la valle, conferendogli un aspetto decisamente fiabesco. Consumiamo una scarsa e pessima colazione in hotel, dopodiché ci rechiamo al parcheggio, trovando con sorpresa l’auto completamente lavata da un inserviente.Causa distanza, abbandoniamo definitivamente l’idea di visitare Soroa e pensiamo quindi di raggiungere Cayo Jutìas, un isolotto nell’arcipelago de Los Colorados, di cui abbiamo letto cose egregie. Arriviamo dunque al paesino di Viñales e da lì voltiamo in direzione de El Moncada, percorrendo per il tratto iniziale la stessa strada di ieri, che ci fa ancora dono di suggestivi scorci panoramici e di belle scene di vita contadina. Constatiamo ancora una volta, quanto sia scarsa la segnaletica stradale, ma per fortuna, superata la deviazione per El Moncada, ci indirizziamo correttamente alla volta di Pons. Guidando sulle strade cubane al di fuori dei principali centri abitati, ritengo sia sicuramente utile disporre di una dettagliata cartina stradale, specie per capire la giusta direzione, potendo leggere i nomi dei piccoli paesi che si superano lungo il percorso. A volte però, anche la cartina può risultare totalmente insufficiente, come quando, ad esempio, in aperta campagna disabitata, il percorso si biforca e la strada principale, indicata sulla carta, si confonde facilmente con una strada locale, senza il benché minimo segnale, che indichi la giusta direzione da seguire. All’altezza di Pons, troviamo però un grosso cartello nuovissimo, o quasi, che indica la direzione da prendere per Cayo Jutìas, nonostante ci troviamo ancora a qualche decina di chilometri dalla nostra meta. La strada si articola quindi in salita attraverso una serie di tornanti in cui non incontriamo anima viva, mentre il paesaggio è costituito prevalentemente da foreste di pini. Continuando a seguire i cartelli che indicano Cayo Jutìas, discendiamo nuovamente verso il mare, che iniziamo finalmente ad intravedere aldilà della fitta vegetazione e giungiamo quindi all’altezza di Santa Lucia, dove imbocchiamo il pedraplèn, ovvero la strada rialzata che congiunge la terraferma all’isolotto. Dopo aver pagato il biglietto d’ingresso, ed aver percorso qualche chilometro, giungiamo quindi a destinazione. Cayo Jutìas rappresenta un classico esempio d’ investimento nel settore turistico da parte del governo cubano. Cuba è letteralmente circondata da migliaia di isole e isolotti, alcuni dei quali già sfruttati turisticamente da tempo, ma la maggior parte sono completamente deserti e disabitati, proprio come era quest’isola dove ci troviamo ora, fino alla fine degli anni novanta. Il pedaggio per l’utilizzo della strada rialzata, assieme agli introiti derivanti dal bar-ristorante sorto sulla spiaggia, ed un centro dove è possibile noleggiare sdraie ed ombrelloni, portano indubbiamente valuta pregiata nelle sempre bisognose casse statali e questo spiega anche i nuovi cartelli stradali appositamente posizionati sulle strade della provincia, per indicare il posto. Trascorriamo una piacevole giornata a Cayo Jutìas. Dal punto in cui parcheggiamo, ci sono alcuni chilometri di spiaggia vergine in cui passeggiare, tra l’altro davvero bianchissima, ed il mare presenta dei colori accecanti, tipicamente caraibici, anche se restiamo un po’ delusi dalla limitata trasparenza dell’acqua, probabilmente dovuta a qualche corrente, che smuove la sabbia dai fondali.

La cosa che rende comunque più piacevole questa giornata, è la grande affluenza di cubani, che in un certo qual modo contribuiscono a colorire ancor più il posto. La spiaggia si riempie ben presto di famiglie locali, ed il parcheggio pullula letteralmente di vecchie auto anni ’50. Valentina fa amicizia con una bambina, e così scambiamo a nostra volta quattro chiacchiere con i genitori, i quali fanno parte di una famiglia numerosa quanto rumorosa, che ha invaso parte della spiaggia con frigoriferi portatili e bottiglie di ron “Varadero”, che qui sembrano ingurgitare con estrema disinvoltura, quasi fosse acqua minerale. Mi piace conversare con queste persone, provare a parlare dei nostri rispettivi bambini, e farlo con disinvoltura, senza esser necessariamente considerato un facoltoso turista. Troppo spesso mancano nel viaggio dei veri contatti umani, ed anche Cuba è un posto dove, considerate le sostanziali differenze economiche tra visitatori e locali, si rischia di esser visti più come un bigliettone verde, che come un uomo. Dopo pranzo, il padre della nuova amichetta di Valentina ci mostra con orgoglio la sua fiammante Chevrolet del ’55 color oro, completamente rimessa a nuovo, per la quale non possiamo esimerci dal complimentarci vivamente con lui. Nel tardo pomeriggio iniziamo quindi il nostro ritorno verso Viñales, stentando un pochino per ritrovare la strada, specie nei punti in cui la stessa si dirama e ci aiuteremo proprio grazie ai cartelli che indicano Cayo Jutìas, ovvero lasciandoceli sì dietro di noi, ma percorrendo la direzione opposta. La sera, uscendo da Los Jasmines, carichiamo a bordo un ragazzino che ci chiede un passaggio fino a Viñales. Ne approfittiamo chiedendogli se conosce qualche buon paladar in paese, ed ovviamente (mai avremmo pensato al contrario) la risposta è positiva. Ci accompagna lui stesso a “Villa Nora Luis”, un posticino decisamente fuori mano, in piena campagna. La gentile Nora ci fa scegliere il menu, dopodiché vado assieme al ragazzino a parcheggiare l’auto dietro la casa, ma debbo tornare nuovamente sulla strada, ed imbeccare una salita proibitiva, lasciando la macchina parcheggiata in un fazzoletto di terra sospeso tra due enormi buche laterali. Il solo pensiero di riprenderla dopo cena, quando non ci sarà un filo di luce e dovrò scendere in retromarcia, non so perché, ma mi crea una leggera angoscia… Nora apparecchia un tavolino solo per noi, in un piccolo portico ubicato proprio fuori la porta di casa, dopodiché lo imbandisce con insalate di mango e papaya, fritti di platanos e malangas, arroz negro, maiale fritto, ed aragosta in salsa di pomodoro. Sarà la fame, o semplicemente il piacere di cenare sotto le stelle, tranquillamente, in aperta campagna, con qualche maialino che ogni tanto si diverte a sfrecciare a due passi da noi, ma divoriamo il tutto con avidità, per la visibile soddisfazione di Nora, a cui paghiamo 10 dollari a testa per la squisita cena. Incrociando le dita, ed invocando qualche spirito locale, riprendo quindi l’auto, facendo retromarcia con un filo di gas e torno quindi a prendere Patrizia e Valentina. Domani lasceremo questo posto fiabesco che è Viñales, con destinazione Maria la Gorda.


Viñales/Maria la Gorda – 173 Km.

Poco dopo le nove, lasciamo quindi Los Jasmines, prendendo la direzione di Pinar del Rio. Dopo aver percorso appena qualche chilometro, vengo fermato da un poliziotto della stradale. “Pasaporte, permiso de conduir y el contrato de renta”, mi intima con fare minaccioso. Li esamina attentamente senza pronunciare una parola, dopodiché mi dice che sono in contravvenzione, per aver superato i limiti di velocità. Provo a controbattere che stavo andando pianissimo, ma mi indica un cartello che fissa il limite a 30 chilometri orari, che, inevitabilmente, avevo superato Mi appioppa quindi 30 dollari di multa, annotando la sanzione sul contratto di autonoleggio e dicendomi che avrei dovuto pagarla direttamente alla Fenix SA. Niente da dire, è iniziata bene la giornata. Raggiungiamo dunque Pinar del Rio, e dopo aver fatto rifornimento di carburante (gasolina especial) presso la stazione Servi-Cupet, iniziamo a percorrere la lentissima Carretera Central in direzione di San Juan Y Martinez. Già, lentissima, perché è letteralmente intasata da camion, biciclette e carri trainati da buoi, e stavolta, spesso e volentieri resto gioco forza sotto i 30 chilometri orari, cimentandomi però frequentemente in ripetuti sorpassi degni di un pilota di formula uno, specie quando, diventa impossibile restare dietro a determinati camion, che emettono una densa coltre di fumo nerissimo. Attraversiamo immense piantagioni di tabacco, ed alcuni paesi minori come Sàbalo, Isabel Rubio, Sandino, distanziati tra loro da chilometri di paesaggi più o meno interessanti, fino a giungere a La Fe, dove finisce la Carretera Central, arteria stradale che attraversa praticamente l’intero paese, ed inizia invece la Peninsula Guanahacabibes, un’area di circa 101.000 ettari, dichiarata nel 1987 come riserva della Biosfera dall’Unesco e protetta da qualsiasi forma di sfruttamento. L’ ultimo centro abitato degno di nota che incontriamo è Manuel Lazo, poco più che un pugno di basse case colorate, poi attraversiamo solo spazi aperti, in cui appare di rado qualche piccola casetta di campagna e

qualche minuscolo agglomerato, fino ad imboccare una strada dissestata lunga qualche decina di chilometri, completamente circondata da una vegetazione così fitta, che quasi impedisce di filtrare anche i raggi del sole. Per chilometri e chilometri, gli unici esseri viventi che vediamo lungo il percorso sono solo un piccolo branco di maiali selvatici, mentre non incrociamo ormai da quasi un’ora una macchina, e lo confesso, sono un tantino preoccupato, in fondo le cifre parlano chiaro, e tra le tante specie che vivono all’interno di questa riserva, la quale annovera decine e decine di varietà di piante, mammiferi, rettili, ed uccelli, vivono anche animali poco mansueti, quali tori selvatici, diverse specie di serpenti, coccodrilli, ed altri ancora. Comunque, all’improvviso la vegetazione si dirada e la strada termina in un bivio presso la località di La Bajada, dove imbocchiamo la strada a sinistra, iniziando poco dopo a costeggiare sulla nostra destra il mare e…che mare ! Superiamo decine di calette caratterizzate da spiagge rocciose e da un’acqua dai colori accecanti e così trasparente, che ci permette facilmente di vedere il fondo addirittura dalla strada. Non posso resistere e così, in prossimità di una di queste calette arresto la macchina e mi diletto in un bagno rigeneratore, trovandomi in breve completamente circondato da una miriade di pesci multicolori. Si intuisce facilmente, questo posto è un piccolo angolo di paradiso. Poco dopo varchiamo quindi l’ingresso del Villa Maria la Gorda, unico complesso alberghiero della Peninsula Guanahacabibes, il quale detiene tra l’altro il primato di essere l’hotel più isolato di tutta Cuba e, dopo aver percorso tutta questa strada senza incontrare anima viva, non stentiamo certo a crederlo. Il posto è molto gradevole, così come le sistemazioni, situate in piccoli edifici ad un piano, ubicati praticamente a ridosso del mare. Il resto è puro piacere, niente fronzoli, ma solo una lunghissima spiaggia color perla, completamente orlata da alte palme da cocco e da un mare sempre liscio come l’olio, la cui trasparenza è tale da

lasciarti senza fiato. Per capirci, Maria la Gorda incarna la pura bellezza del paesaggio tropicale, la classica cartolina da incorniciare. Trascorriamo alcuni giorni in completo relax in questa magnifico posto, che sembra portare il nome di una grassa signora venezuelana lasciata su questi lidi dai pirati, che per sopravvivere si diede alla prostituzione, acquisendo una fama notevole. Maria la Gorda, significa però oggigiorno per noi un posto incontaminato in cui isolarsi un po’ dal mondo, un mare trasparente come acqua minerale

Foto scattata in piscina? Nooooo, è il mare che lambisce Maria la Gorda...

e ricco di pesci, poca gente, centinaia di metri di

spiaggia deserta e dei tramonti infuocati talmente belli da sembrar finti, a cui assistiamo estasiati direttamente dalla veranda della nostra camera, mentre sorseggiamo un classico mojito, o un ron Añejo con ghiaccio.

Anche Valentina sembra sentirsi completamente a suo agio in questo magico posto, acquisendo un’autonomia tale, che quasi ci sconcerta. Maria la Gorda possiede inoltre un ospite assai inconsueto, che quasi tutti i visitatori vanno prima o poi ad omaggiare. Pinneggiando infatti per un centinaio di metri dalla spiaggia principale, ci si imbatte praticamente sempre in un grosso barracuda, che sembra quasi divertirsi a nuotare in quel punto. A voler essere comunque pignoli, anche quest’incantevole località presenta delle piccole stonature, come i buoi, che spesso vengono ad infrangere con i loro potenti versi il silenzio della notte, o i pasti sempre ripetitivi (a fine viaggio avrò letteralmente la nausea di riso, pollo e maiale), o come gli stessi sand flyes, ed i numerosi mosquitos, che tutte le sere banchettano a piacimento sui nostri corpi, riducendoci la pelle a brandelli, mentre fortunatamente la piccola sembra esserne immune. Il terzo giorno di permanenza rompo gli indugi e rispolvero il mio vecchio brevetto, effettuando alle nove del mattino un’immersione subacquea, che confermerà quanto di positivo avevo letto circa i fondali pressoché incontaminati di questa penisola. Cinquanta minuti a venti metri di profondità, attraverso un paesaggio costituito da numerose grotte e ventagli di gorgonie, ed in compagnia di grossi branchi di barracuda e carangidi. Nel pomeriggio ripeterà l’esperienza Patrizia, alternandoci in questo modo a far compagnia a Valentina, la quale sembra a sua volta provare un’irresistibile attrazione per questo incredibile mare.

Maria la Gorda, un posto che ci rimarrà nel cuore.


Maria la Gorda/Havana – 328 Km.

Dopo alcuni giorni trascorsi in quest’angolo di paradiso, riprendiamo la nostra marcia, questa volta nuovamente in direzione dell’Havana. Partiamo verso le tredici, poco dopo aver effettuato il check-out, ed aver in questo modo sfruttato un’altra mattinata di mare. Impiegheremo quasi sei ore per arrivare alla capitale, pagando fortemente dazio alla carretera central nel tratto compreso tra La Fe e Pinar del Rio, che abbiamo trovato completamente intasata dai soliti camion, carretti, cavalli, biciclette e quant’altro esista per poter rallentare continuamente il nostro cammino. La notte, quasi fossi in una sorta di videogame, sognerò innumerevoli carretti trainati da buoi, da superare all’infinito.


Havana/Playa Giròn – 230 Km.

L’odore del caffè appena fatto si diffonde rapidamente nella stanza, allietando il nostro risveglio. Sarà forse per la stanchezza accumulata nella giornata di ieri, ma abbiamo dormito letteralmente di sasso in questa bella casa particular habanera. Mèlida, l’anziana ed affabile proprietaria, ha già preparato la colazione, mentre rimbomba in tutta casa il suono gradevole della musica salsa, sparata a tutto volume dalla radio posta nel soggiorno. Abbiamo così sperimentato la nostra prima casa privata cubana, riscontrando da subito la squisita cortesia, la grande disponibilità, e cordialità della proprietaria, doti che spesso mancano nel personale alberghiero. Poco dopo le nove, siamo comunque già in auto e ci accingiamo a lasciare nuovamente l’Havana. Causa assoluta mancanza di segnaletica, stentiamo però molto a trovare l’imbocco dell’A1, l’Autopista Nacional, che comunque raggiungiamo, grazie soprattutto ad uno dei tanti autostoppisti prelevati lungo il percorso. Anche in questo caso, il traffico è sostanzialmente inesistente e possiamo quindi imprimere un ritmo sostenuto alla nostra marcia, facendo però attenzione in prossimità dei tanti ponti ubicati lungo il percorso, dove di solito si apposta la polizia. I 30 dollari di multa per eccesso di velocità rifilatimi a Viñales non li ho ancora effettivamente digeriti, anche se, pensandoci bene, di questi tempi la stessa infrazione in Italia ci costerebbe ben più cara. In poco meno di un paio d’ore giungiamo allo svincolo per Australia, imboccando quindi la strada che ci conduce nel mezzo del Gran Parque Natural Montemar (Parque Natural Cienaga de Zapata), nella provincia di Matanzas. Quest’ampia zona acquitrinosa, di fatto la più grande palude di Cuba, è stata dichiarata dal governo cubano parco nazionale, e costituisce l’habitat naturale di decine di specie animali, come coccodrilli, i quasi ormai estinti lamantini, e poco meno di duecento tipi di uccelli. Poco dopo aver superato la suddetta cittadina chiamata Australia, carichiamo a bordo l’ennesimo autostoppista di questo viaggio, un ragazzino diretto alla Boca de Guamà, prossima nostra meta. Ci mostra con orgoglio un piccolo esemplare di coccodrillo imbalsamato, che deve consegnare al Criadero de Cocodrilos, l’allevamento di coccodrilli che abbiamo deciso di visitare, pensando soprattutto a Valentina. Sul posto ci sono un paio di ristoranti, i quali propongono proprio la carne di coccodrillo nei loro menu, ma optiamo per l’ennesima chuleta de cerdo, accompagnata dall’onnipresente riso con fagioli. L’allevamento, per quanto ci riguarda è abbastanza deludente, e l’unica a godere di questa visita sarà proprio Valentina, visibilmente emozionata nel poter ammirare da vicino questi rettili. Vorremmo visitare l’adiacente “Laguna del Tesoro”, ma un improvviso quanto intenso acquazzone ci farà desistere, e ci rimettiamo quindi in auto, raggiungendo dapprima Playa Larga e successivamente Playa Giròn. Ci fermiamo un paio di volte sulla strada che congiunge queste due località, in prossimità di alcune splendide calette caratterizzate da un incantevole mare tranquillo, dalle notevoli sfumature cromatiche.

Eccoci quindi a Playa Giròn, di fatto poco più che un villaggio, dove però si respira una bella atmosfera tipicamente rurale.

Lungo la via principale, troviamo facilmente una casa particular dove trascorrere la notte, concordando con la simpatica proprietaria anche il menu per la cena. Poi, passeggiamo nelle stradine del piccolo villaggio, recandoci dapprima a visitare il piccolo museo Giròn, il quale espone foto e reliquie inerenti il fatidico sbarco controrivoluzionario, effettuato il 17 aprile 1961 proprio in queste zona, comunemente chiamata Baia dei Porci.

Per la cronaca, sbarcarono su queste spiagge circa 1400 mercenari addestrati in Nicaragua e Guatemala, i quali furono sconfitti dall’esercito castrista in circa 72 ore, grazie soprattutto alla partecipazione al conflitto degli abitanti del posto. Dopo aver visitato il museo, arriviamo quindi alla spiaggia principale del paese, decisamente mediocre dal punto di vista estetico, e delimitata da un’enorme diga marittima, che impedisce tra l’altro la visuale dell’orizzonte.

Il posto è però caratterizzato dalla massiccia presenza di cubani, che lo rendono in qualche modo più “autentico”, rispetto alle tante località turistiche disseminate nel paese, ed è piacevole trascorrevi del tempo. All’imbrunire raggiungiamo quindi la nostra casa, dove Mariel, la simpatica proprietaria, ha preparato per noi la cena, composta questa volta da minestra, riso, platanos fritte, e pesce fritto nell’aglio. La cena è anche passabile e Mariel è davvero simpatica e premurosa, ma finisco in qualche modo in cucina per prendere una birra in frigo, ed è meglio dimenticare ciò che vedo, e, soprattutto, non pronunciare parola alcuna con Patrizia. Dopo cena non c’è molto da fare a Playa Giròn, per cui restiamo in veranda, comodamente seduti su delle sedie a dondolo in ferro battuto,

mentre Valentina è fortemente attratta da alcuni carretti trainati da cavalli, i quali portano i bambini locali a fare il giro del villaggio. Quando il prossimo ferma davanti alla nostra casa, Patrizia decide di portarcela.

Si siedono leggermente in disparte, ma i bambini cubani la invitano in mezzo a loro, manifestando una grande gioia nel conoscerla, segno che la barriere razziali e culturali tra i bimbi non esistono, le abbiamo inventate noi adulti, con il nostro egoismo e la nostra cattiveria. Durante i quaranta minuti che il carretto impiega per fare il giro del villaggio, rimango in veranda in compagnia di Don Ramon, l’anziano padre di Mariel. Gli chiedo dapprima se la macchina è al sicuro, lì, sulla strada, e mi risponde che a Playa Giròn si conoscono tutti, che è sempre stato un villaggio molto tranquillo, e che nessuno mai si azzarderebbe a recar danno ai suoi ospiti. Gli domando quindi se ricorda lo sbarco nella Baia di Porci, e vedo i suoi occhi quasi illuminarsi. Inizia a raccontarmi quell’episodio della sua giovinezza, aveva appena diciassette anni quando i mercenari sbarcarono. Furono istituite delle brigate di volontari a cui si iscrissero tutti i giovani del posto, ricevendo in cambio un fucile. La voce fioca, il viso solcato da un’infinità di rughe, una grossa cicatrice sul petto. Gran bel personaggio Don Ramon. Continua a raccontarmi con passione i suoi ricordi, coinvolgendomi ed entusiasmandomi. Gli offro una birra che avevo acquistato prima di cena, ma non può bere, poiché sta prendendo delle medicine per i polmoni, seriamente contaminati dai fumi di scarico del suo camion, guidato per trentacinque anni sulle strade della provincia. Continuo ad ascoltare con passione i suoi racconti, mentre fisso il cielo, coperto come mai di stelle. Sono contento di stare qui, ora, in questo piccolo paesino cubano, e di prestare attenzione alle sue parole. Conserverò nella mente questi momenti, come tra i più belli di questo viaggio. Patrizia e Valentina tornano dal loro minitour, e la piccola, visibilmente euforica, continua a giocare in casa con i due figli di Mariel, mentre lei si diletta a seguire una telenovela, con l’audio del televisore ovviamente sparato a tutto volume.Ma chi l’ha detto che il gallo canta al sorgere del sole? La notte sarà caratterizzata da un continuo cantare dei galli, che evidentemente sono più numerosi di quanto potessi minimamente immaginare, qui a Playa Giròn. Sarà una notte insonne, trascorsa con un gran mal di stomaco, tra galli canterini e fameliche zanzare.


Playa Giròn/Santa Clara – 207 Km.

Telenovelas ! La televisione ci sveglia presto, proprio quando, dopo non aver praticamente chiuso occhio tutta la notte, dormivamo beatamente. Telenovelas quindi, diffuse a quanto pare in quantità industriali su questi canali. Sento dei rumori provenienti dalla cucina. Mariel, puntuale come un orologio, sta già friggendo il mio uovo, anche se ci troviamo ancora a letto. Ho poco appetito stamattina, avverto ancora dei dolori allo stomaco, e poi, l’uovo rifritto, proprio non mi piace. Decidiamo di comune accordo di saltare la visita della Caleta Buena, che, da quanto abbiamo letto, è un’autentica meraviglia, situata tra l’altro a soli nove chilometri da qui, ma oggi abbiamo entrambi poca voglia di mare e snorkeling. Ci rimettiamo dunque in marcia verso Playa Larga, fermandoci per una breve sosta a Las Cuevas de los peces, un cenote profondo circa settanta metri, completamente circondato da una lussureggiante foresta tropicale. Il posto è piacevole, vi si potrebbe trascorrere un’intera giornata, rilassandosi e facendo snorkeling in questa piscina naturale piena zeppa di pesci multicolori, che arrivano attraverso un tunnel sotterraneo direttamente dal mare, situato dall’altra parte della carretera. Tra la vegetazione notiamo diversi esemplari di giganteschi granchi di terra, ed osservandoli, ci si rende effettivamente conto di quanti problemi possano creare tra aprile e maggio, mesi della loro grande migrazione annuale. Ci hanno raccontato di strade bloccate e pneumatici forati a tutto spiano. Non stentiamo a crederci. Raggiungiamo in breve Playa Larga, dove sostiamo per un po’ di tempo. La spiaggia, davvero poco attraente, è letteralmente piena di gente del posto, così come, in un piazzale adiacente, pullulano baretti e pseudo ristoranti di lamiera improvvisati, che servono refrescos dai colori sgargianti, nonché bocaditos e pizzas.

Nell’aria aleggia un odore pungente, un misto di fritto, gasolio, brace, formaggio fuso, mentre nel mare, molto calmo, ci saranno almeno un centinaio di persone intente a bagnarsi.

Echeggiano varie melodie di musica salsa, sparata a tutto volume da alcuni grossi altoparlanti, ed il limitrofo parcheggio invece, è pieno zeppo di vecchi autobus sporchi e sgangherati, nonché d’automobili d’epoca.

Dopo un’oretta riprendiamo la macchina, dirigendoci verso l’Autopista, e fermandoci anche oggi alla Boca de Guamà. Incontriamo due ragazzi conosciuti a Maria la Gorda, ed assieme prendiamo una barca a motore per fare un giro all’interno della cosiddetta Laguna del Tesoro, così chiamata, perché si pensa che gli indios Tajnos, prima di essere conquistati dagli spagnoli, vi gettarono le loro ricchezze. Ci addentriamo quindi all’interno di questa gigantesca laguna, restando affascinanti dal bel paesaggio e dai tanti uccelli che ammiriamo.

Il posto, a livello naturalistico è indubbiamente notevole, ma l’incantesimo viene rotto quando approdiamo presso la ricostruzione del villaggio Tajno, che troviamo affollato da decine di gruppi organizzati, che con le loro grida, turbano sensibilmente la grande quiete del luogo. Nei paraggi vi è anche un hotel, il Villa Guamà, interamente costruito su palafitte lungo i canali che delimitano la laguna.

Restiamo poco tempo, facendoci condurre sempre in barca attraverso dei canali limitrofi, prima di riprendere la via dell’imbarcadero. Dopo aver consumato la solita rinsecchita bistecca di maiale, guarnita dall’immancabile riso e fagioli, che inizio ad odiare, ci dirigiamo verso l’Autopista, imboccandola una ventina di minuti dopo, in direzione di Santa Clara. Lungo il percorso, a stento vediamo due intersezioni ferroviarie non protette da passaggio a livello, frenando in tempo grazie a dei comuni segnali di stop (alto), tra l’altro abbastanza fatiscenti e mal posti. E’ tardo pomeriggio quando entriamo a Santa Clara. Qui, la segnaletica stradale di fatto esiste, e pertanto ci rechiamo subito nella vicinissima Plaza de la Revoluciòn, dove si trova la grande statua in bronzo del “Che” Guevara, raffigurato in piedi, su un basamento di pietra sul quale è impressa la scritta “Hasta la Victoria Sempre”, mentre in basso a destra è inciso il testo della lettera, che il “Che” scrisse a Fidel Castro prima di partire per il Congo. Alle spalle della statua, raggiungiamo quindi il memoriale dedicato al rivoluzionario argentino. Il museo è di fatto chiuso, mentre possiamo accedere alla stanza dove dal 1997 è sepolta la sua salma rinvenuta in Bolivia. Inutile negarlo, il posto mi commuove. Oltre a quella del “Che”, vi sono trentotto lapidi che onorano la memoria dei guerriglieri uccisi assieme a lui, sebbene molte delle stesse sono vuote, in quanto i corpi non sono stati ritrovati. Il nome di Santa Clara è legato al “Che”, ed egli ha impresso il proprio nome nella rivoluzione cubana, grazie proprio alla famosa battaglia di Santa Clara, dalla quale uscì vincitore, ed in cui dimostrò una grande abilità militare, attaccando assieme a pochi uomini il famoso “tren blindado”, che portava numerose munizioni e qualche centinaio di miliziani di Batista nelle province d’oriente. Grazie ad un bulldozer, deviò i binari, facendo deragliare il treno che attaccò, costringendo le truppe di Batista alla resa. Questa battaglia segnò sostanzialmente il trionfo della rivoluzione castrista, e nel Monumento a la Toma del Tren Blindado, che visitiamo dall’altra parte della città, troviamo foto e reliquie inerenti la famosa battaglia, ben conservate all’interno di alcuni dei vagoni originali che componevano il treno. In bella mostra di sé, di fianco alla bandiera cubana, non manca ovviamente il bulldozer originale, che consentì ai rivoluzionari di far deragliare il treno.

Sta quasi tramontando, e dal monumento al tren blindado raggiungiamo brevemente il centro di Santa Clara, dove ci sistemiamo in una casa particular nei paraggi del Parque Vidal, bel parco gremito di gente, dove usciamo a passeggiare poco dopo aver lasciato i bagagli in camera e firmato il registro della casa. Ceniamo in un attiguo ristorante con degli squisiti camarones grigliati, che annaffiamo con una leggera “Mayabe”, dopodiché ci sediamo su una delle tante panchine che circondano il parco, mentre la banda municipale inizia il suo concerto. Valentina socializza con dei bambini del posto, mentre noi scriviamo qualche cartolina. Si respira una bella atmosfera in questa vivace piazza di Santa Clara. Ammiriamo molto la serenità di questa gente, la loro dignità e allegria, nonostante le tante difficoltà quotidiane a cui sono sottoposti. Sei bella Cuba.


Santa Clara/Cayo Santa Maria – 110 Km.

Siamo di nuovo sulla strada. Sono ormai giorni che percorriamo quotidianamente centinaia di chilometri sulle carreteras cubane, ed iniziamo tutti e tre ad avvertire un po’ di stanchezza. Tra l’altro, Valentina, probabilmente stufa delle solite pietanze, comincia ad avere una certa inappetenza e questo ci preoccupa. Transitando velocemente sull’Avenida de Liberaciòn, ci allontaniamo dal centro di Santa Clara, imboccando la strada per Camayuanì, Remedios e Cayo Santa Maria, per nostra fortuna opportunamente segnalata. Dopo aver percorso qualche chilometro, ritrovandomi come sempre dietro ad un gigantesco camion, che emette una densa nuvola di fumo nero come il petrolio, mi accingo ad iniziare la manovra di sorpasso, quando vedo una pattuglia della polizia stradale. Rientro velocemente, ma è troppo tardi, una paletta sventolata nell’aria con fare deciso, associata ad un fischio impetuoso, mi intimano d’arrestare la marcia, facendomi accostare qualche decina di metri più avanti. Ci risiamo, penso tra me, anche se stavolta l’infrazione non l’ho commessa, ne ho solo avuta l’intenzione. Prendo lo zaino sbagliato e mi dirigo verso il gigantesco poliziotto, il quale mi chiede solo il passaporto, che però ovviamente non trovo, così gli dico con imbarazzo che vado a prenderlo in macchina, ma mi segue, scrutando curiosamente all’interno della stessa. La vista di Valentina, deve però in qualche modo averlo rasserenato, poiché, quando gli porgo il passaporto, senza nemmeno prenderlo in mano mi domanda “de donde viene?” Italia, rispondo, ma mi fa cenno di andarmene, aggiungendo un breve “todo bien”. Attraversandole, superiamo dapprima Camayuanì, paesino che ci sembra davvero poco attraente, ed in seguito Remedios, dove invece ci fermiamo un poco sulla sua piazza principale, la bella Plaza Martì, circondata da palazzi d’epoca, ed ombreggiata da alberi, tra cui spiccano delle belle palme reali.

Si respira una piacevole atmosfera a Remedios, un senso di pace e tranquillità assoluta, facilmente percepibili percorrendo le sue strette strade, delimitate da costruzioni coloniali color pastello, le cui finestre sono ornate da inferriate in ferro battuto.

Credo che se questi palazzi fossero ristrutturati, con le dovute proporzioni Rimedios potrebbe essere accostata in termini di bellezza a Trinidad, l’incantevole cittadina coloniale nella provincia di Sancti Spiritus, che visitammo otto anni fa. Continuiamo quindi la nostra marcia, fino a quando, l’enorme statua di un granchio, simbolo della cittadina, ci comunica che siamo giunti alle porte di Caibarien, poca prima della quale voltiamo a destra, prendendo la direzione della litoranea. Sulla strada, restiamo colpiti da un nutrito branco d’avvoltoi intenti a divorare i resti di qualche povero animale, mentre ad appena una quindicina di metri di distanza, come se nulla fosse, troviamo una piccola folla di persone, radunata presso una fermata dell’autobus locale, segno che sono di fatto abituati alla presenza di questi rapaci, per noi ovviamente poco consueti. Percorsi pochi chilometri, troviamo il cartello che indica la nostra meta, ed imbocchiamo dunque il pedraplèn, la strada rialzata lunga circa cinquanta chilometri, che collega la costa con diversi cayos, tra cui i più famosi Las Brujas e Santa Maria. Paghiamo due dollari per il pedaggio, mentre i numeri dei nostri passaporti e la targa della nostra auto vengono annotati su un apposito registro da un poliziotto. Poi, iniziamo a percorrere questo lunghissimo ponte, che sembra inizialmente allungarsi all’infinito verso l’orizzonte, ed i cui lati sono praticamente privi di barriere di protezione, consentendoci in questo modo di ammirare totalmente lo smeraldino

mare che stiamo attraversando. Uno spettacolo, accresciuto tra l’altro da una piccola colonia di fenicotteri, che stazionano indisturbati in un breve tratto paludoso. Dopo aver attraversato il braccio di mare aperto, chiamato Canal de Los Barcos, la strada inizia a collegare tra loro un’infinità di isolotti (Cayos de la Herradura), molti dei quali non hanno nemmeno un nome, per poi giungere al più rinomato Las Brujas, dove si trova una pompa di benzina, un piccolo aeroporto ancora non funzionante, ed un complesso alberghiero. Continuiamo la nostra marcia, arrivando ad attraversare oltre cinquanta ponti sul mare, per giungere finalmente alla nostra meta, Cayo Santa Maria. Eccoci quindi in questo albergo, prenotato ad inizio viaggio all’Havana. Per il momento, il Sol Cayo Santa Maria è l’unico complesso albeghiero che sorge sull’isola, anche se, un vicino cantiere, preannuncia la prossima apertura di un altro hotel. Qui, la formula è all inclusive, e confesso che, dopo aver trascorso le ultime due settimane mangiando praticamente sempre riso, pollo e maiale, ora che siamo quasi a fine viaggio, di certo non mi dispiace poter mangiare e bere a sazietà nei vari ristoranti e bar dell’albergo, potendo tranquillamente scegliere tra un numero infinito di pietanze e bevande. Non so bene infatti il perché, ma ho come la vaga sensazione, che dopo che mi sono recato al buffet la prima sera, abbiamo probabilmente considerato l’idea di aumentare il costo delle camere… Questo posto, offre anche l’opportunità alla nostra Valentina di rimettersi dal faticoso viaggio su strada finora effettuato, sicuramente per lei estenuante, e di alternare soprattutto l’alimentazione, grazie a degli standard di livello internazionale, sicuramente più idonei ad una bimba di 2 anni e mezzo circa. La bambina ha anche l’occasione di sperimentare il suo primo miniclub, dove rimane più che volentieri per qualche ora al giorno, divertendosi e giocando assieme ad altri bimbi poco più grandi di lei, anche se sicuramente non si comprenderanno tra loro, considerato che sono quasi tutti canadesi del Quebec, ma forse, nostra figlia starà ormai acquisendo una mentalità cosmopolita. Nelle ore in cui lasciamo Valentina al miniclub, possiamo dedicarci alla scoperta dell’isola, la quale ci offre degli scorci memorabili. Così come a Cayo Largo, che visitammo nel ’95, anche qui non abitano cubani e pertanto, un soggiorno a Cayo Santa Maria significa senza dubbio perdere molto dal punto di vista dei contatti umani, ma offre esclusivamente l’opportunità di un’immersione totale nell’incontaminata natura di Cuba, che in quest’isola, ancora sostanzialmente selvaggia, raggiunge proporzioni notevoli. La finissima spiaggia che delimita il complesso alberghiero, è di un bianco accecante, e si estende per diverse centinaia di metri su entrambi i lati, consentendoci di restare in completa solitudine

effettuando una breve passeggiata, mentre il mare, leggermente increspato, è di un intenso e quasi accecante color verde smeraldo. Ma il massimo in termini di bellezza, lo raggiungiamo allontanandoci di circa quattro chilometri dall’albergo. Imboccando dal pedraplèn una breve strada sterrata, sulla quale s’incontra solo qualche timida iguana che, impaurita dal nostro passaggio, si rifugia velocemente nella bassa vegetazione, si raggiunge brevemente Playa Ensenachos, una spiaggia, la cui bellezza è sostanzialmente impossibile da descrivere. La prima volta, restiamo letteralmente ammutoliti dallo spettacolo offerto da questo luogo.

Una sorta d’immensa piscina, che sembra estendersi all’infinito, la cui acqua, dai mille riflessi verdognoli e completamente trasparente, lambisce una lunga spiaggia bianca completamente deserta.

Ci rechiamo nella stessa durante le prime ore del mattino, quando la troviamo sempre completamente spopolata, od al massimo occupata da un paio di famigliole cubane provenienti da Caibarien. Sarà uno dei nostri posti preferiti qui, a Cayo Santa Maria, splendida isola dove trascorriamo quattro giorni in totale relax.


Cayo Santa Maria/Havana – 420 Km.

Oggi effettuiamo la tappa più lunga di questo nostro tour cubano, che sta inevitabilmente volgendo al termine. Sull’Autopista Nacional veniamo sorpresi da un temporale di immani proporzioni, che quasi ci impedisce la totale visibilità per un’infinità di tempo, rallentando quindi a dismisura la nostra marcia. Arriviamo all’Havana solo nel tardo pomeriggio, e questa volta decidiamo di soggiornare presso l’Habana Libre, nel cuore pulsante del Vedado. Il mattino seguente mi sveglio di buon ora, mentre le mie dolci donne sono ancora immerse nel sonno e la città, ancora non completamente illuminata dalla luce del giorno, sta lentamente animandosi. La visuale offerta dalla nostra stanza, ubicata al quattordicesimo piano di questo immenso edificio, è davvero notevole, e mi permette di spaziare con la vista su quasi tutto il Vedado.

Mi soffermo come incantato a guardare gli incroci sottostanti, la gente, le vecchie automobili, le guguas, consapevole che tra poco entreranno a far parte dei ricordi. Otto anni fa, più o meno in questo stesso periodo, lasciavo Cuba, consapevole che prima o poi vi sarei tornato. Non so cosa mi attrae di più di quest’isola. Non so se sono maggiormente ammaliato dalla sua gente forse unica al mondo, dal suo favoloso mare, dalla sua musica, dai suoi sublimi paesaggi dell’interno, dalle palme reali, dalle vecchie Cadillac, Pontiac e Chevrolet, dall’odore inebriante del ron, del mojito e dei “puros”, dal suo fascino decadente, da tutto questo assieme, da altro, o addirittura da niente di tutto ciò. Non so…

Solo che adesso, a poche ore dalla partenza, mentre osservo con malinconia le sottostanti strade del Vedado, ormai risvegliatesi dalla notte habanera, capisco ancor più di amare quest’isola e forse dovranno trascorrere altri otto anni, ma sono certo che un giorno vi tornerò, proprio perché… te quiero Cuba.


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