Da sempre la Malaysia ci aveva attratto, probabilmente a causa dei ricordi infantili legati a Sandokan, il mitico eroe salgariano. Il nostro viaggio in questa terra ha ripagato con gli interessi le nostre aspettative. Siamo stati circa un mese nella Malaysia Peninsulare, che abbiamo risalito dalla confinante Singapore fino all'isola di Penang. La Malaysia rappresenta il trionfo della natura, un vero e proprio patrimonio dell'umanità, dove circa il 62% del territorio è occupato da foreste primarie. Il territorio malese annovera più di 8.000 specie vegetali e circa 200 specie di mammiferi, oltre 620 specie di uccelli, 250 specie di rettili, circa 15.000 specie di insetti, inoltre anche il mare offre il meglio di sè, ricco com'è di fondali spettacolari, nei quali pullulano veri e propri giardini corallini, ricchissimi di fauna marina. Insomma, un viaggio in Malaysia può rivelarsi come una vera e propria "full immersion" nella natura, poichè non capita in tutti i paesi di fare incontri ravvicinati con gli squali in fase di snorkeling a pochi metri dalla riva, come ci è successo sulle isole di Tioman e Redang, o di dormire in una foresta pluviale risalente ad oltre 130 milioni di anni, come il Taman Negara.


Qualche informazione di carattere generale


Il clima in Malaysia è abbastanza particolare, poichè a causa dei flussi monsonici, le piogge investono parti diversei del paese in periodi differenti. Il periodo migliore per visitare la costa orientale e gli stati del Sarawak e Sabah nel Borneo, corrisponde grosso modo alla nostra estate, in quanto va da Maggio ad Ottobre, mentre il periodo più indicato per visitare la costa occidentale corrisponde ai mesi Novembre ad Aprile, ovvero al nostro inverno. Ovviamente ci troviamo sempre ai tropici, per cui, anche nei mesi corrispondenti al periodo secco, un acquazzone più o meno intenso è da mettere in preventivo.

Il nostro viaggio risale al 1997, ed il paese era alla vigilia della grande crisi che colpì numerosi stati asiatici. Nel nostro mese trascorso in terra malese riscontrammo una vera e propria discesa in picchiata del ringitt. Ad ogni modo, il costo della vita risultò certamente più caro rispetto ad altri paesi confinanti da noi visitati come Indonesia e Thailandia, di gran lunga più economici.

Noi ci siamo spostati con gli autobus locali, economici e confortevoli, i quali raggiungono ogni località del paese. Il mezzo di spostamento più diffuso in Malaysia è comunque il taxi collettivo, molto usato dai locali. Ogni grosso centro dispone di una propria stazione, e queste autovetture, le quali sono soventemente grandi Mercedes, partono per qualsiasi destinazione quando sono piene, coprendo spesso lunghe distanze. La Malaysia peninsulare dispone anche di una buona rete ferroviaria http://www.ktmb.com.my/ , che attraversa il paese da Singapore fino ai confini thailandesi delle due coste, il che consente di pianificare il proprio itinerario all'interno del paese, servendosi anche dei treni. La compagnia di bandiera Malaysia Airlines copre inoltre l'intero territorio con numerosi voli giornalieri abbastanza economici, e volando di notte, si possono spuntare tariffe addirittura dimezzate.

Conserviamo un piacevolissimo ricordo della gente malese, la quale costituisce un vero e proprio crogiuolo etnico. La Malaysia è tra i paesi più cosmopoliti del mondo, in quanto convivono più o meno serenamente malesi, cinesi, indiani, indonesiani, ma anche tribù come gli Iban, i Dayak, ed altri, che vivono nel cuore del Borneo Malese. Vi sono inoltre gli Orang Asli, il popolo originario che abitava la penisola prima dell'arrivo dei malesi, i quali vivono ancora nella giungla, e che si possono incontrare all'interno del Taman Negara. Tutte queste razze costituiscono inevitabilmente un biglietto da visita culinario non indifferente, il quale offre il meglio di sè nei mille mercati notturni. Personalmente ritengo incompleta una visita in Malaysia, senza aver assaggiato le specialità locali nei numerosi banchetti.

Indicare i posti da non perdere risulta assolutamente difficile, poichè le attrattive da vedere sono praticamente illimitate e dipende quindi da quali sono gli interessi primari del viaggiatore che si spinge sino in Malaysia. Noi eravamo partiti con il solo biglietto aereo, ma con la chiara intenzione di visitare almeno un paio di isole sulla costa est della penisola malese, essendo inguaribilmente patiti di snorkeling ed immersioni subacquee. Inizialmente volevamo far rientrare nel nostro viaggio anche il Borneo, ma poi sul posto abbiamo desistito, anche in considerazione del costo dei biglietti aerei. Se si intende includere il Borneo nel viaggio in Malaysia, ritengo convenga volare dall'Italia con la Malaysian Airlines, la quale offre dei tagliandi interni a prezzi molto scontati a chi effettua il volo intercontinentale con loro. Ad ogni modo, nella penisola malese le località da visitare sono moltissime.

Noi abbiamo iniziato il nostro viaggio dall'estremità meridionale, ovvero da Singapore, città che già conoscevamo e che, pur non facendo parte della Malaysia, merita assolutamente di essere visitata. Da Singapore molti risalgono in autobus o treno la penisola sino a Kuala Lumpur sostando a Melaka, mentre noi abbiamo volato direttamente su Tioman Island. Quest'isola viene spesso visitata superficialmente non disponendo di strade interne (l'unica, lunga circa un paio di chilometri collega il villaggio di Tekek con il Berjaya Resort), ma in realtà offre molte attrattive e numerose spiagge praticamente deserte che si possono raggiungere con il "sea bus" che ogni giorno effettua il periplo dell'isola. Da Tioman ci siamo spostati nell'avveniristica Kuala Lumpur, la capitale malese dove i minareti delle moschee si mescolano ad imponenti e ultramoderni centri commerciali e da qui abbiamo raggiunto il Taman Negara. Da questo "santuario della natura" ci siamo spostati in autobus sulla costa dell'est risalendola fino a Kota Bharu, capitale dello stato del Kelentan, situata quasi al confine con la Thailandia. Sulla costa dell'est, prima di raggiungere Kota Bharu abbiamo soggiornato da sud a nord rispettivamente a Cherating, Kuala Terengganu, sull'isola di Kapas, e su quella meravigliosa di Redang. Altro arcipelago degno di nota sulla costa est malese è quello delle isole Perhentian che noi non abbiamo visitato. Da Kota Bharu abbiamo raggiunto l'isola di Penang, situata dalla parte opposta della penisola malese, ovvero sulla costa occidentale. Su questa stessa costa altre isole molto gettonate turisticamente sono le isole Langkawi e l'isola di Pangkor, che però, come sopra scritto, sarebbero da visitare nel periodo corrispondente al nostro inverno.

Riguardo il Borneo, beh, spero di poter scrivere qualcosa in futuro...

Un consiglio: ritengo assolutamente necessaria la prenotazione nei periodi di alta stagione (specialmente nel mese di Agosto) nel Taman Negara, a meno che non si voglia piantare la propria tenda, e sulle isole della costa dell'est, a meno che non si voglia dormire in spiaggia. Noi ci siamo rivolti ad un tour operator di Kuala Lumpur, trovandoci molto bene. Nel Taman Negara i pacchetti (trasferimento + alloggio) partono da due notti in su. Se si ama la natura, conviene soggiornarvi almeno tre notti, poichè il primo giorno verrà praticamente impiegato per raggiungere il parco, dove si arriverà nel tardo pomeriggio.


Il mio racconto e foto di viaggio

Singapore e Malaysia


"La città del Leone"

L'aereo della Thai spacca il minuto. Alle 06,50 del 6 Agosto, siamo di nuovo in terra d'oriente. Transitiamo semiaddormentati attraverso i corridoi del Dong Muang di Bangkok, fino all'uscita per il prossimo volo che, dopo sei anni, ci ricondurrà nella città-stato di Singapore. Alle 8,30, l'aereo nel quale siamo gli unici europei, decolla da una Bangkok dove insolitamente splende il sole. Seduti accanto a noi, ci sono decine di uomini orientali in giacca e cravatta, con tanto di ventiquattrore in pelle, nella quale sembrano custodire i destini dell'umanità. Sono i rampanti managers orientali, i protagonisti del boom economico delle cosiddette "tigri asiatiche". A chi è abituato a coprire lunghe distanze, un volo di due ore, quale il nostro Bangkok-Singapore, può apparire come una semplice formalità, ed in effetti, fino ad oggi, sulla base della mia modesta esperienza, così la pensavo anch'io. Mi sbagliavo! Non immaginavo minimamente cosa significasse volare per mezz'ora nel mezzo di una tempesta tropicale. Trenta minuti nei quali, quei vuoti d'aria che tanto fanno sospirare i passeggeri, sono stati continui e ripetuti. Trenta minuti nei quali, il panico si è diffuso anche tra i membri dell'equipaggio, visibilmente terrorizzati. Alle 11,45, l'atterraggio sulla pista del Changi Airport di Singapore, viene accolto da tutti come una sorta di liberazione. Il tempo di riservare una stanza presso l'efficientissimo ufficio dell’Associazione Hotel di Singapore, ed eccoci di nuovo in taxi per iniziare un altro viaggio, partendo da una città che sei anni or sono ci entusiasmò.

Il Duxton hotel si differisce dagli altri hotel di Singapore. Ubicato in Chinatown, questi non appare come il solito enorme edificio vetrato, ma come una bassa costruzione allineata alle caratteristiche e centenarie "shophouses", le vecchie case-bottega dei primi immigrati cinesi, che il governo della città-stato, con un grandioso progetto sta ristrutturando.

Anche la camera che ci viene assegnata è decisamente notevole, con tanto di antichi mobili scuri, sui quali sono stati finemente intarsiati alcuni simboli cinesi. Sono già le 14, quando passeggiamo per le stradine di chinatown sotto il diluvio universale, muniti dei nostri inseparabili Key-Way. Nel nostro primo viaggio in questa città, girovagammo quasi sempre nei dintorni di Orchard Road, la celeberrima strada dello shopping, e Chinatown, che sfiorammo velocemente con una visita guidata, ci apparve più come un'attrattiva turistica, che come un quartiere vero e proprio. Ora, entrando a curiosare nei negozi più nascosti, nei grandi magazzini, nei mercati, ci rendiamo conto che la Chinatown di Singapore pulsa di vita, e restiamo colpiti dalla sua atmosfera "reale", nonché dalla sua gente. Ma l’inevitabile domanda che un viaggiatore può porsi, è la seguente: come può esistere una chinatown, in una città costituita per il 77% da cinesi? Singapore rappresenta il classico esempio della migrazione cinese nel mondo. O forse, ancor meglio, potremmo dire che Singapore è l'esempio tangibile dell'abilità del popolo cinese, al quale va tutta la mia ammirazione. Infatti, poco dopo la sua fondazione da parte degli inglesi, Singapore accolse centinaia di uomini armati unicamente delle proprie braccia, provenienti dal sud del celeste impero in cerca di fortuna. Furono impiegati dagli inglesi assieme agli indiani ed ai malesi, nei lavori più umili, soprattutto come scaricatori di porto, nelle varie opere di bonifica dell’area paludosa in cui sorse la città, e nelle piantagioni limitrofe, tant’è che vennero presto chiamati coolies, dal termine cinese gu-li (fatica amara). Però, a differenza degli indiani che, per la maggior parte detenuti, arrivarono sull’isola per scontare le pene tramite lavori forzati (la maggioranza decise in seguito di restare, una volta saldato il debito con la giustizia), e dei malesi, che furono praticamente i primi abitanti di Singapore, i cinesi, pur partendo quasi alla pari con gli stessi, seppero far valere il loro innato senso del commercio, e prevalsero soprattutto perché più numerosi, considerato comunque che la loro immigrazione proseguì massicciamente negli anni a seguire.In breve i cinesi si organizzarono in clan e costituirono numerose società segrete, con il tacito benestare iniziale del governo inglese, considerato che le stesse praticamente formavano una sorta di struttura sociale autogestita, dove si regolava il lavoro, il flusso migratorio (gli immigrati venivano consegnati nelle mani dei coolie-brokers, i cosiddetti mercanti di braccia), nonché eventuali controversie interne (furono molti i delitti, la cui responsabilità fu attribuita ad esempio alla Triade, la più importante fra le società segrete). Ben presto però, gli inglesi si accorsero che la situazione era sfuggita loro di mano, e che i cinesi erano divenuti praticamente incontrollabili. Cercarono quindi di porre rimedio alla crescita del loro potere a Singapore, dapprima con una sorta di censimento delle società segrete, ed in seguito con la produzione e vendita in proprio dell’oppio (la cui circolazione fu abolita solo nel 1946), il cui traffico, che produceva un notevole giro d’affari, era da sempre in mano alle cosche cinesi. Negli anni a seguire, il governo cercò sostanzialmente in tutti i modi di ostacolare il crescente ed irrefrenabile potere cinese a Singapore, tanto che ne censurò la stampa, ritirò i fondi stanziati per l’istruzione dei cinesi, limitò ai minimi storici il flusso migratorio degli stessi, ma era troppo tardi, in quanto Singapore, una colonia britannica in continua espansione, la cui posizione per il traffico marittimo nel sudest asiatico era a dir poco strategica, si mostrava ormai come una metropoli di impronta chiaramente… cinese. Oggi, in una delle città tecnologicamente più avanzate del mondo, dove la bilancia commerciale è sempre in attivo, il prodotto nazionale lordo in continua crescita, il livello di istruzione altissimo, inflazione e disoccupazione sostanzialmente inesistenti, i discendenti di quegli umili lavoratori cinesi detengono il potere economico e politico, sulla base degli insegnamenti del grande "padre" di Singapore Lee Kuan Yew (laureato in legge a Cambridge con il massimo dei voti, e discendente a tutti gli effetti da un umile coolie), il quale ha saputo guidare con destrezza la città-stato dal 1959 fino ai nostri giorni. Ma nella chinatown, lontano dalle sfavillanti luci degli immensi grattacieli della metropoli, nulla sembra esser cambiato dai tempi dei coolies, in quanto a parte le numerose e caratteristiche basse costruzioni color pastello, ed i molteplici ristorantini tradizionali, nei quali si mangia rigorosamente con le bacchette (e dove fanno bella mostra di se decine di anatre laccate), ci si può ad esempio ancora imbattere in qualche paziente scrivano, in numerosi negozi di medicina tradizionale, in altri che espongono oggetti funerari di cartapesta, negli abili intagliatori di statuette in legno raffiguranti gli dei, in qualcuno che, con nostro grande stupore, non comprende una parola di inglese, prima lingua ufficiale di Singapore, studiata da tutte le etnie che compongono la città-stato. Questa è la tradizionale chinatown nella modernissima Singapore, proiettata giorno dopo giorno versi nuovi record. O meglio, tanto per confutare ogni supposizione, lo è fino a sera. Infatti, dopo cena, in numerosi vecchi splendidi edific del quartiere, aprono i battenti i pub ed i club più esclusivi della città. Continuiamo a passeggiare sotto la pioggia battente per le viuzze della Chinatown, visitando il tempio di Thian Hock Keng (della gioia celeste), fra i più antichi della città, e dedicato a Ma-cho-po, la regina del cielo, protettrice dei marinai. Il tetto è veramente eccezionale, letteralmente ornato di figure scolpite, e la coppia di dragoni che spiccano sullo stesso, rappresentano i principi dello yin e dello yang. Al suo interno, tra affreschi rappresentanti antiche divinità e figure della mitologia confuciana, troviamo diverse persone occupate a bruciare bastoncini d’incenso, fedeli alle più antiche tradizioni cinesi. Il carattere estremamente cinese di questo quartiere, fa dimenticare che ci troviamo in una delle città più cosmopolite del mondo, e quasi ci sorprendiamo quando, continuando la nostra affascinante passeggiata sotto la pioggia, ci troviamo davanti il familiare tempio indù di Sri Mariamman, la cui torre d’ingresso (gopuram), è decorata da ben settantadue divinità, e sul cui tetto spiccano due enormi vacche.

Avevamo già visitato questo splendido tempio sei anni or sono, e passiamo quindi innanzi, fino a raggiungere la zona di Tanjong Pagar, completamente restaurata, dove le vecchie case cinesi color confetto di fine secolo, sono state portate a nuovo. E’ una zona pulsante di vita, ricca di sale da the e negozi, che però quasi stona con la parte più vecchia.  Contraddizioni su contraddizioni in questa Singapore, dove bastano dieci minuti di viaggio nella ultramoderna metropolitana, per lasciarsi alle spalle i colori, gli odori, i suoni della Cina, e ritrovarsi a Raffles Place, il cuore del distretto finanziario. Qui, una volta usciti dalla metro, con nostro grande stupore, dobbiamo alzare lo sguardo fino al cielo, per poter scorgere la fine degli enormi palazzi vetrati, fra i quali spiccano le sedi dell’Overseas Union Bank e della United Overseas Bank, enormi grattacieli alti circa 270 metri. Mentre nel frattempo ha smesso di piovere, Patrizia ed io ci muoviamo stupiti tra lo sciame di persone che corrono in ogni direzione. Qualche decina di metri dopo arriviamo al Boat Quay, il lungofiume dove le "shophouses" dei primi coolies cinesi, sono state trasformate in locali, ristoranti e pub con tanto di postazioni internet, che qui usano con disinvoltura anche i bambini. E' il posto dove gli impiegati a fine lavoro vengono a sorseggiare un soft drink od una birra, ed è il posto dove gironzolano tutti i turisti non presenti nei vicoletti di chinatown.

Una spumeggiante e gelata "Tiger", la birra nazionale, sta già aspettandoci ad uno dei pochi tavoli disponibili, dove ci concediamo qualche istante di meritato riposo. Il nostro stomaco a ragione si lamenta, e mentre il cielo ormai buio, sta colorandosi delle mille luci degli immensi grattacieli circostanti, riprendiamo la metropolitana sino alla fermata di Circus. Anche la tipica usanza asiatica di mangiare sui banchetti degli ambulanti distribuiti ai lati delle strade, a Singapore è stata stravolta. In una città dove le multe sono salatissime (e non transigono) per chi fuma nei luoghi pubblici, mangia o beve nella metropolitana, lascia sporche le pubbliche toilettes , getta cartacce o mozziconi di sigarette per strada, mastica chewing-gum, attraversa fuori dalle strisce pedonali, e per tante altre cose, il cui elenco sarebbe interminabile, come potevano esistere dei venditori di cibo ai margini delle strade? Ecco allora che sono state adibite delle specifiche zone chiamate “Hakwer food centre”, nelle quali si riuniscono i vari banchetti ormai non più ambulanti e dove si gusta il miglior cibo di Singapore. La nostra meta è appunto uno di questi: il Newton Circus. Passiamo in rassegna i vari banchetti posti in un enorme piazzale all'aperto, nel quale il meglio delle quattro cucine cinesi è rappresentato alla grande, ma dove ovviamente si può acquistare del buon cibo malese od indiano. Un enorme granchio cucinato in salsa piccante, delle verdure fritte, oltre l'immancabile riso saltato, andranno a smorzare la nostra fame ad un tavolo diviso con un singaporiano ed un filippino, con i quali intratterremo una piacevole conversazione, concludendo la prima giornata di questo mese da trascorrere nel sud-est asiatico.

Il giorno seguente di buon'ora, dopo una colazione nella quale a Patrizia è stato servito un yogurt irrimediabilmente scaduto (ma qui non dovrebbero essere impeccabili?), ci dirigiamo al n. 29 della vicina Neil Road, presso un’agenzia di viaggi denominata Usaha Express. Il nostro scopo, è quello di acquistare i biglietti aerei per quella che, nei nostri programmi, dovrebbe essere la nostra prossima destinazione, ovvero l'isola di Tioman in Malaysia. Le difficoltà derivano però dal fatto che il 9 Agosto, giorno scelto per la nostra partenza da Singapore, è festa nazionale. Gli abitanti della città del leone, in questo che di fatto rappresenta uno dei pochi giorni di festa nel loro calendario stakanovista, amano effettuare delle gite fuori porta nelle vicine Malaysia ed Indonesia. Quest'anno, cadendo il “national day” di Sabato, hanno pensato bene di concedersi anche un piccolo e meritato week-end. Peccato però, purtroppo per noi, che la loro meta preferita sembra essere proprio Tioman Island. Siti Hamidah Omar, una gentile malese con tanto di "chador", ci dà appuntamento nel pomeriggio, spiegandoci che, nonostante il tutto esaurito, avrebbe fatto del proprio meglio, per garantirci un posto sull'aereo che quattro volte al giorno, collega Singapore con Tioman Island. Ritorniamo quindi nel quartiere coloniale, ed iniziamo la nostra visita esattamente nel punto dove, nel 1819, mise piede per la prima volta Sir Stanford Raffles, vicegovernatore di Bencoolen (stazione commerciale inglese a Sumatra), incaricato di fondare una nuova base commerciale il più vicino possibile a Malacca. Raffles acquistò il posto chiamato Singapura (la leggenda narra che un principe di Sumatra scampò per sua fortuna all’assalto di un leone sull’isola, ed il fausto presagio lo convinse a fondare Singapura, che nella lingua locale significava“città del leone”) dal sultano di Johore per conto della Compagnia delle Indie Orientali, e decise di farne un porto-franco fra l’India e la Cina, porto che accoglie ai nostri giorni, circa 35.000 navi ogni anno, e che si è guadagnato di diritto il merito di essere tra i più attivi al mondo.


Nel punto in cui si narra sbarcò Raffles, si erge ora maestosa una statua a lui dedicata, mentre poco distante, a ridosso del mare, troviamo il "Merlion", simbolo della città costituito da un leone dal corpo di pesce.


Qui, non possiamo certo dire che manchino i turisti, specialmente nipponici, con tanto di nikon incorporata. Visitiamo quindi di seguito gli antichi edifici come la Parliament house, sovrastata dalla torre dell’orologio, la Corte Suprema, il municipio (City Hall), ed il Padang (campo in malese), l'enorme prato dove i colonialisti britannici, fedeli alle proprie tradizioni, giocavano a cricket. Poco più avanti del padang, visitiamo la cattedrale anglicana di Sant'Andrea, eretta sostanzialmente con il duro lavoro degli indiani, dopodiché ritroviamo ancora una sfilza di grattacieli, tra i quali si erge il Westin Stanford, l'albergo che, con i suoi settantatre piani, è ai nostri giorni il più alto del mondo.Intorno alle quattordici, sudato più che mai e con l'aspetto decisamente poco consono per l'occasione, mi accingo assieme a Patrizia a varcare la soglia del mito. Centodieci anni di età per il "Raffles", storico hotel di Singapore. Grande eleganza, prezzi a partire da seicentomilalire per una doppia, galleria di boutique, ristoranti vari, ed atmosfera magica. Saliamo le scale che conducono al "Long Bar", all'interno del quale, nonostante gli splendidi ventilatori d'epoca, c'è un'aria condizionata pazzesca. La particolarità del bar, dove sembra sia stato inventato il famoso "Singapore Sling", cocktail nazionale, è rappresentata dalle centinaia di bucce di arachidi sparse sul pavimento. Infatti, qui tutti sorseggiano il "Singapore Sling", mangiano le arachidi e gettano sistematicamente le bucce sul pavimento. Tutto come ai bei tempi che furono, quando l'hotel (riaperto nel 1991 dopo un restauro costato milioni di dollari), era spesso frequentato da personaggi del calibro di Maugham, Kipling, Coward, Hesse e tanti altri. Comunque ogni mito ha il suo prezzo, e così, dopo aver bevuto il nostro eccellente Singapore Sling, gettato le bucce delle arachidi sul pavimento, e consumato degli scadenti involtini primavera ripieni di pollo, ci alziamo soddisfatti, e con le tasche più vuote di circa… sessantamilalire. Buone notizie arrivano però dall'agenzia, che abbiamo contattato telefonicamente. La giovane malese, sembra aver trovato due posti sul ferry che collega Singapore a Tioman e soprattutto, una sistemazione presso il Beraya Imperial Tioman Resort, l'unico resort dell'isola, ad un prezzo a dir poco eccezionale. Confesso che non aspiravamo a tanto. Dopo avergli lasciato i nostri dati, tramite un divertente spelling telefonico (risate a crepapelle da entrambe le parti), ci diamo appuntamento al mattino seguente, dopodiché ci rechiamo in taxi al Monte Faber, dal quale con la teleferica raggiungiamo l'isola di Sentosa, dopo aver goduto di una splendida visuale dall’alto del porto di Singapore. Molto interessante in questa specie di Disneyland orientale, è il museo dei pionieri di Singapore, nel quale è rappresentata attraverso delle stupende statue in cera, la storia della città. Un percorso interno illustra la storia di Singapore, da quando Stanford Raffles acquistò l’isola da un sultano malese, sino all'invasione giapponese della seconda guerra mondiale, ed ai nostri giorni. Altra visita interessante da effettuare sull'isola, è quella dell'Underwater world, dove un tapis roulant scorre sotto un tunnel sottomarino vetrato, attraverso il quale si possono osservare svariate specie acquatiche. Verso le venti lasciamo in ferry Sentosa, approdando al World Trade Center di Singapore. Sperimentiamo anche per la prima volta gli stupendi autobus rossi a due piani in puro stile londinese, facendoci scorazzare per pochi cents, fino al Lao Pau Sat. Considerato dai singaporiani (attraverso un nostro personale sondaggio), il miglior Hakwer food centre della città, il Lao Pau Sat si presenta come un enorme edificio ottogonale dal tetto in ghisa. Al suo interno viene proposto su decine e decine di chioschi, tutto l'universo culinario asiatico. Questa sera la nostra scelta cade sul "chicken rice", un piatto originario della provincia di Hainan nel sud della Cina. Questi consiste in riso bianco bollito, accompagnato da pollo altrettanto bollito, cetrioli e brodo dello stesso pollo. Per rendere il tutto più saporito, si può usare facoltativamente un'ottima salsa a base di chili come ulteriore condimento. A seguire, un piatto di "noodles with seafood", ovvero spaghettini di riso con frutti di mare rigorosamente crudi, immersi in un brodo di dubbia provenienza, dopodiché proviamo i famosi “satay” malesi, ossia degli spiedini di carne marinati con salsa di arachidi al peperoncino. Mentre fuori è ormai buio, sediamo al nostro tavolo divertiti e stupiti da questo centro, che appare quasi irreale ai nostri occhi. Le centinaia di persone che l’affollano, ed il forte brusio delle loro voci asiatiche, sembrano un tutt’uno con le luci al neon delle insegne dei vari chioschi, e con i forti odori indefinibili, che arrivano diretti e pungenti a sollecitare le nostre narici. Dopo una bella passeggiata per digerire queste prelibatezze asiatiche, lasciamo che il sonno cali il sipario su questo secondo giorno di viaggio.

Il mattino dopo, ci dirigiamo direttamente in agenzia. Nonostante le nostre perplessità, la nostra amica malese inaspettatamente tira fuori dal cassetto due biglietti aerei per Tioman Island. Ci ha anche riservato una stanza presso il Berjaya hotel. Confrontando quanto abbiamo pagato, con i prezzi praticati in Italia, notiamo con grande soddisfazione che il risparmio è stato notevole, e pensiamo che la fortuna ci ha presi per mano, in questa fase iniziale del viaggio. Una volta pagato e ritirato i nostri documenti, ci dirigiamo in taxi alla volta della Serangoon Road, cuore pulsante della Little India di Singapore. Musica, ristoranti, pasticcerie, negozi tipici, donne vestite con splendidi e colorati sari, manifesti delle dive del cinema tamil, magnifici templi con eccezionali gopuram, il tutto tipicamente indiano, quasi ci trovassimo a Delhi, Bombay, o Calcutta. Un'altra caratteristica del quartiere, è rappresentata dalle molteplici gioiellerie, nelle quali sono in vendita notevoli gioielli tipicamente indiani. Ma la prima cosa che viene comunque all'occhio, è che, nonostante ci troviamo in un quartiere indiano, le gioiellerie, affollate da acquirenti rigorosamente indiane, sono gestite dagli unici che a Singapore detengono i grandi capitali. Chi sono? Ma è ovvio... i cinesi!!! Conoscendo mia moglie, sapevo che non si sarebbe lasciata sfuggire l’occasione di intrufolarsi in uno di questi negozi, ed ecco quindi che dal caos dell’affollata Serangoon Road, ci ritroviamo in breve tempo a contrattare sul prezzo di uno stupendo bracciale, circondati da numerose donne indiane, le quali comprano costosi gioielli con estrema disinvoltura, a dimostrazione dell’elevato tenore di vita diffuso a Singapore. Non acquistiamo però il bracciale, in quanto il “boss”, un cinese sulla cinquantina con un appariscente Rolex d’oro al polso, alla vista della mia carta di credito, rialza di dodici dollari di Singapore il prezzo sul quale avevamo raggiunto un accordo. Per principio non accettiamo, ma ci lascia andar via cinicamente, senza batter ciglio, pur di non pagare le commissioni sull’incasso, dimostrando tutta l’impassibilità e la determinazione dei ricchi commercianti di Singapore, diretti discendenti dei poveri cinesi della diaspora. Siamo di nuovo nel caos della Serangoon Road, dove il profumo dei numerosi negozi di spezie, si mescola con quello dei caratteristici ristoranti. Raggiungiamo lo Sri Veeramakaliamman Temple, consacrato alla dea Kali, dove entriamo dopo esserci tolti le scarpe, adagiandole tra le altre decine, appartenenti ai fedeli che già si trovano all’interno. In rispettoso silenzio, tra nuvole d’incenso, turbanti e parole incomprensibili, ci caliamo nella realtà del tempio, dove osserviamo tra l’altro, una bella statua di Ganesh, il dio con la testa di elefante.

Torniamo in strada, tuffandoci nuovamente tra i mille suoni della Serangoon Road, e l’afa ormai insopportabile. Lentamente ci rendiamo conto di trovarci in un’altra città. Una città nella città, in questa Singapore che continua a sbalordirci. Arriviamo allo Sri Srinivasa Perumal Temple, il più importante della zona, dedicato a Vishnu. Il tempio ci accoglie con il suo spettacolare gopuram alto circa venti metri. Troviamo il suo interno molto affollato, ed anche qui l’odore dei fiori e dell’incenso sono molto intensi. Dopo aver visitato anche il tempio buddista “Delle mille luci”, imbocchiamo la Race Course Road, che percorriamo interamente sotto un sole allucinante, affascinati dalle mille botteghe che espongono i “malai” le profumatissime ghirlande di fiori di gelsomino. E’ ormai ora di pranzo, ed entriamo in uno dei tanti affollati locali della via. Gli inservienti del Muthu’s Curry Restaurant ci accolgono con grande ospitalità, ed il ristorante si presenta decisamente bene. Mia moglie ordina un “masala dosa”, una specie di frittella che avvolge una serie di verdure dal sapore abbastanza forte, mentre io, nonostante il suoi decisi scoraggiamenti, mi cimento nel piatto presente in quasi tutti gli altri tavoli, ovvero il “fish-head curry”, un’enorme testa di pesce servita in un mare di curry piccantissimo. Debbo ammettere che, quando il cameriere mi presenta il testone, con relativi maliziosi sogghigni di sottofondo da parte di Patrizia, quasi stento ad assaggiarne la carne, piuttosto intimorito da questo piatto dal forte odore, ma poco dopo rompo gli indugi, non pentendomi affatto di averlo ordinato, malgrado sia veramente molto piccante, ed occorrono un paio di “Tiger” per spegnere le fiamme. Facciamo due conti, constatando che Singapore è tale e quale a come la ricordavamo, ovvero carissima. Abbiamo abbondantemente sforato il budget, ed abbiamo ancora poco meno di un mese di viaggio davanti a noi. Con la bocca incendiata, lasciamo Little India per dirigerci ad Arab Street, altra “città”, nella città di Singapore. Quest’area, inizialmente paludosa, si trasformò poco dopo la fondazione della città in un gremito centro commerciale, dove i mercanti arabi che approdavano a Singapore, si riunivano a vendere le spezie, ed altre ambite mercanzie. Oggi è abitata prevalentemente dai malesi, che con il loro 15%, rappresentano in percentuale la seconda etnia più numerosa a Singapore dopo i cinesi (la terza è composta dagli indiani con circa il 7% del totale della popolazione). Trascorriamo circa mezz'ora, passeggiando in queste strade dal carattere spiccatamente islamico, dove spicca la cupola dorata della “Moschea del sultano” costruita nel 1825, e dove sono presenti decine di negozi che vendono tappeti, stoffe, batik. Il caldo e l’umidità sono a dir poco asfissianti, e verso metà pomeriggio, stanchi, ed un poco innervositi dall’irresistibile calura, decidiamo di trascorrere in maniera più rilassata questo nostro ultimo pomeriggio a Singapore. Constatato quindi, che per beneficiare di un pò di frescura nella “città del leone”, non c'è niente di meglio che infilarsi nei vari centri commerciali, dove potremmo andare se non nella mitica Orchard Road? Qui niente è cambiato rispetto a sei anni or sono. Soliti enormi ed imbarazzanti megacentri commerciali e solite persone che si prendono sul serio, affaccendandosi nel capitalistico hobby dello shopping. Eppure é bella la lunghissima Orchard Road. Salendo e scendendo dalle scale mobili dei suoi centri commerciali, con lo sguardo perso sulle vetrine delle migliori case di moda occidentali, ci si dimentica persino di trovarsi in Asia, alle porte della mitica Malesia di Salgari, ed a pochi chilometri di mare dalla selvaggia Indonesia. In Orchard Road, allineato alla lunga schiera di lussuosissimi alberghi, ritroviamo anche il per noi mitico Holiday Inn Park View, che suscita vecchi, romantici, e piacevoli ricordi. Verso le 19, ormai stremati, ceniamo all’aperto in un ristorantino cinese alle sue spalle, e concludiamo la serata sorseggiando un drink sul Boat Quay, dal quale osserviamo malinconicamente per l’ultima volta le mille luci della “città del leone”.


Tioman, l'isola dei pirati.


Il 9 Agosto, di buon mattino, raggiungiamo in taxi il Seletar, aeroporto secondario di Singapore. Ad attenderci, assieme ad una decina d’insonnoliti compagni di volo, troviamo un vecchio ed enigmatico bimotore della fantomatica compagnia "Pelangi Air". Effettuiamo quaranta minuti di volo sul Mar Cinese Meridionale, fino a scorgere all’improvviso una terra cosparsa di palme, interamente circondata da acque color smeraldo, e sulla quale spiccano maestosi, alti picchi granitici. Capiamo che siamo giunti a destinazione, e Tioman, la più grande delle isole della costa orientale malese, lunga una quarantina di chilometri e larga circa dodici, è pronta ad accoglierci.

Alla dogana, gli scuri malesi aprono uno ad uno i bagagli di tutti i passeggeri. Qui, qualche grammo di una qualsiasi sostanza illegale, equivale alla morte. Un furgoncino del Berjaya, che ad ogni volo fa spola tra l'improvvisato aeroporto e l'hotel, sta già aspettandoci. Percorriamo circa due chilometri sull'unica strada dell'isola e subito restiamo folgorati dalla sua rigogliosa natura. Siamo letteralmente entusiasti e smaniosi di tuffarci in quel mare visto dall'alto. E' ormai mezzogiorno, quando finalmente possiamo immergerci nelle calme acque malesi. Restiamo in pratica fino a sera sulla stretta spiaggia dorata adiacente il resort e pratichiamo un po’ di snorkeling, abbastanza deludente. Alle 17 in punto, il beach-bar, fedele alle collaudate formule internazionali, propone la sua “happy hour”davanti ad un tramonto di fuoco, ed al particolarissimo fenomeno della bassa marea, la quale sembra aver ampliato la spiaggia, facendo emergere dal nulla scogli, piccoli pesci, coralli e meduse. Il cocktail davanti al rosso del tramonto, sarà un consueto rito pomeridiano che accompagnerà il nostro soggiorno a Tioman. Dopo aver cenato, verso le nove, saliamo su un furgoncino appartenente al complesso di bungalow denominato "Babura" (che la sera viene ad accaparrarsi clienti per la cena), col chiaro intento di visitare il villaggio di Tekek, situato vicino alla pista d’atterraggio. Soliti due chilometri di strada, però stavolta completamente al buio, per constatare che il villaggio in questione, altro non è che un agglomerato composto da qualche decina di casette, piuttosto spoglie. Acquistiamo quindi alcune bottiglie d’acqua in una sorta di minimarket e ci facciamo ricondurre al resort, dove poco dopo ci corichiamo fra le braccia di Morfeo in terra malese.

Il giorno seguente, dopo un'abbondante colazione, ci allontaniamo a piedi dal Berjaya in direzione della solitaria spiaggia di Bunut, distante circa un paio di chilometri. Lo scenario che si manifesta ai nostri occhi, dopo aver superato il campo da golf del resort, è d’incomparabile bellezza. Sabbia color perla, acque trasparenti, affusolate ed altissime palme da cocco. C'è persino qualche scimmietta che, incuriosita e per nulla spaventata dalla nostra presenza, ci attraversa ripetutamente la strada. Il tutto, nel più completo isolamento.

Una volta raggiunta la spiaggia, ci abbandoniamo meritatamente al più completo relax in questo mare di cristallo, con il sottofondo dei mille rumori della vicina giungla. Trascorriamo alcune ore in completa solitudine, ammirando tra l’altro un piccolo isolotto in lontananza, sul quale spiccano tre verdissime palme che sembrano infrangersi sull'azzurro intenso del cielo e riflettersi sul verde smeraldo del mare. Sembra tutto così irreale, tanto che iniziamo a fantasticare tra noi. E se fossimo a Mompracem? Tutto riporta alla mente la celebre isola salgariana, e forse, il bello di un viaggio, consiste anche in questo, ovvero avere la possibilità di ripercorrere attraverso scenari memorabili, le nostre fantasie perdute negli anni.

L'escursione del giorno dopo a Pulau Tulai, un isolotto distante una ventina di minuti di motoscafo da Tioman, rimarrà impressa nelle nostre menti per sempre. Appena arrivati sull'isola disabitata, comunemente chiamata Coral Island, ci allontaniamo sulla sua splendida spiaggia di borotalco, sino al punto ideale indicatoci dalla guida per praticare snorkeling. Immediatamente veniamo ripagati dei soldi spesi per la gita. Patrizia, appena immersa la testa sott'acqua, scorge un bellissimo esemplare di tartaruga intento a planare in un mondo fatato. Alta concentrazione di coralli vivi e tipici pesci tropicali, colorano i fondali sottostanti. Nuotiamo tranquillamente per circa mezz'ora, attenti a non lasciarci sfuggire nulla di quanto accada sotto il pelo dell'acqua. Ad un certo punto, tra un pesce e l'altro, a circa una decina di metri da noi, intravedo un’enorme sagoma scura. Il sangue mi si gela quando, messe a fuoco inizialmente le pinne, riesco a materializzare l'intera figura, ora più vicina. Capisco che si tratta di uno squalo di almeno un paio di metri, ed immediatamente faccio cenno a mia moglie di non muoversi. Incuriosita riesce a sua volta a vederlo, ed in preda al terrore iniziamo goffamente la nostra fuga. Fortunatamente, forse il nostro amico avrà avuto più paura di noi. Avremo qualcosa da raccontare ai nostri compagni (tutti orientali), durante questa giornata dedicata interamente allo snorkeling. Giornata che trascorriamo quasi interamente fra lunghe discese in apnea e faticose risalite in barca. Prima di far ritorno, approdiamo all'ora di pranzo al pittoresco villaggio di Salang.

Completamente diverso da Tekek, Kampung Salang pulsa di vita. Sono tanti i giovani viaggiatori che hanno trovato alloggio nei bungalow disseminati lungo la pittoresca baia lunga circa un chilometro, nonostante il fatto che non esistano strade sull'isola, ed i vari villaggi (Salang compreso), possono essere quindi raggiunti unicamente in barca. Prima di far ritorno al resort, abbiamo il tempo di immergerci per l'ultima volta in un tratto di mare frequentato da enormi pescioni intenti a mangiar briciole offerte loro dai turisti. La sera proviamo un altro piatto tipico della provincia di Hainan, nel sud della Cina. Lo steam-boat, (letteralmente battello a vapore), consiste in un’enorme pentola posizionata al centro del tavolo, nella quale è fatto bollire del brodo e sono fatti cuocere direttamente dai commensali degli spaghettini di riso, verdure varie, uova di quaglia, pezzetti di pesce e carne. Veniamo aiutati da un divertito signore di Hong Kong, il quale con grande maestria ci mostra il da farsi, indicandoci addirittura i presunti tempi di cottura dei vari alimenti. Tra una risata e l'altra dei simpatici camerieri e della famigliola di Hong Kong, consumiamo la nostra saporita cena sotto le stelle, e con il rumore in sottofondo del Mar Cinese Meridionale, che accompagna la fine della nostra seconda giornata a Tioman Island.

Il giorno successivo decidiamo di circumnavigare l’isola. Come precedentemente scritto, esistendo a Tioman un’unica strada lunga appena un paio di chilometri, la quale collega la pista di atterraggio al Berjaya Resort, i vari villaggi disseminati lungo le coste sono collegati tra loro esclusivamente via mare, ed a tale scopo è stato istituito un regolare servizio di “Sea Bus”, il quale effettua giornalmente il periplo dell’isola, consentendo a chi lo desidera, di sostare diverso tempo nelle varie spiagge. Alle nove in punto ci troviamo sul pontile adiacente il nostro albergo, pronti ad imbarcarci su questo caratteristico battello, il quale salpa subito dopo in direzione sud. Durante la navigazione riconosciamo la splendida spiaggia solitaria di Bunut e poco dopo superiamo Paya, un’altra spiaggetta che non ci sembra niente male. La prima fermata del battello avviene a Kampung Genting, dove scendiamo per una visita. Il villaggio, costituito da un minuscolo agglomerato di casette, ci appare piuttosto desolato e la spiaggia adiacente, non ci sembra niente di speciale. Notiamo che i turisti sono piuttosto scarsi, nonostante ci siano diversi complessi di modestissimi e spartani bungalow. Riprendiamo la navigazione doppiando la punta meridionale dell’isola, dove, dalla rigogliosa vegetazione, spiccano le vette di granito gemelle di Batu Sirau e Nekek Semukut, alte circa 910 metri e note da secoli ai mercanti arabi e cinesi, i quali le avevano annotate sulle proprie mappe. La nostra prossima fermata è la spiaggia di Asah, dalla quale ci incamminiamo su una stradina nella giungla, fino a raggiungere una spettacolare cascata, dove ci riposiamo con il sottofondo musicale dettato dalle scimmie. Tioman si rivela notevolmente spettacolare, molto più di quanto immaginassimo. Il sea bus riprende la navigazione per approdare a Juara, sulla costa orientale dell’isola. Quattro casette su palafitte e qualche spartano e colorato bungalow per turisti, costituiscono l'essenza del villaggio, dove regnano un silenzio ed una tranquillità irreali. Per il resto, solita scena da cartolina, con un'immensa e candida spiaggia lambita da acque cristalline ma un pò agitate, oltre le solite, ed immancabili palme a fare da contorno. Il posto è molto tranquillo, ideale per rilassarsi, e ci fermiamo per il pranzo, consumando velocemente un nasi goreng”, il classico riso fritto presente in molti stati del sud-est asiatico. Nel pomeriggio il battello approda nuovamente a Kampung Salang, il bel villaggio che abbiamo visitato ieri, ed in seguito ferma ad Air Batang. Scendiamo a visitare il villaggio, dove troviamo un cospicuo numero di turisti, ma nel quale si respira un’atmosfera decisamente informale. Ci sediamo sulla spiaggia, vicino al molo, a sorseggiare una Anchor Beer ghiacciata, osservando l’andirivieni delle imbarcazioni. In seguito facciamo la conoscenza di un ragazzo, il quale si offre di portarci in giro con la sua barca, e, dopo aver contrattato sul prezzo, gli chiediamo di venirci a riprendere tra un paio di ore in una spiaggetta vicina, per condurci al Berjaya Resort. Lasciamo quindi andar via il sea bus e ci incamminiamo a piedi dal molo in direzione nord, attraversando diversi complessi di bungalow, alternati a piccole baie dalla placide acque trasparenti. Sono molti i viaggiatori che soggiornano ad Air Batang, probabilmente per l’esiguo costo delle sistemazioni, come appuriamo personalmente, dopo averne visitata qualcuna. Arrivati alla fine della spiaggia, poco dopo aver superato l’ABC Chalets, ci incamminiamo su un sentiero sterrato che si inerpica su una salita niente male. Dopo una ventina di minuti, arriviamo in cima ad un promontorio dal quale riscendiamo per raggiungere la splendida spiaggia di Penuba Bay, dove ci tuffiamo per un bagno rigeneratore. Qui non troviamo veramente nessuno, tranne qualche casetta abitata da locali, ed il posto sembra veramente isolato dal resto del mondo. Il tempo scorre però velocemente e così ci incamminiamo nuovamente alla volta dell’adiacente Monkey Beach, dove abbiamo appuntamento con il nostro barcaiolo.Il giovane malese arriva puntualissimo, placando le nostre preoccupazioni dovute al fatto che sarebbero stati guai se non si fosse presentato, considerato che il sole inizia a tramontare e che siamo veramente isolati.

Il mattino seguente, verso le nove, veniamo lasciati dal furgoncino del Berjaya nel villaggio di Tekek. Subito dopo la pista di atterraggio, nei pressi della moschea, inizia un sentiero che collega Tekek, situata sulla costa ovest dell'isola, con Kampung Juara, il villaggio visitato ieri, ubicato sulla costa est. Sette chilometri di fitta giungla che percorriamo faticosamente, zaini in spalla, in circa due ore e mezza. Un percorso nel cuore della foresta tropicale che effettuiamo in completa solitudine, con la compagnia delle urla delle scimmie e di qualche grossa iguana, che sguscia impaurita tra l'impenetrabile vegetazione. A metà strada esatta, con tanto di segnalazione ad indicare il Km. 3,5 troviamo un improvvisato punto di ristoro. Cos'è il genio umano? Potrebbe spiegarcelo questo giovane ragazzo malese. La sua idea, è quella di vendere a quei pochi, temerari, e stanchi forestieri, che giornalmente effettuano il percorso, bibite ghiacciate a... prezzi da rapina. Dopo esserci ristorati in seguito alla faticosa salita, riprendiamo il nostro cammino in discesa tra palmizi e piantagioni di caucciù, fino a scorgere l'azzurro del mare, ed il minuscolo villaggio di Juara, semicoperto dalle palme. Appena arrivati, posiamo i nostri zaini all’ombra di una palma e ci tuffiamo in acqua per un bagno rigeneratore. Oggi il villaggio appare ancora più tranquillo e non vediamo praticamente anima viva, nemmeno sulla spiaggia. E’ un gran bel posto Kampung Juara, una classica località dove estraniarsi dalla routine quotidiana della vita. Per far ritorno al resort, il nostro progetto iniziale era quello di prendere alle 14,30 il sea-bus che, come verificato ieri, ogni giorno effettua il periplo dell'isola, fermandosi nei vari villaggi. Il prezzo alto della corsa, associato al nostro budget che continua a lanciare segnali di allarme, ci faranno optare per il ritorno a piedi attraverso la giungla. Sotto un sole di fuoco, ed un caldo pazzesco, iniziamo a ripercorrere in salita i sette chilometri che portano a Kampung Tekek, con il pentimento che aggroviglia le nostre coscienze quando, implacabile, udiamo il suono della sirena del sea-bus in partenza. Circa tre ore dopo, arriviamo esausti al villaggio, dove compriamo delle bottiglie d'acqua e dei ghiaccioli della Nestlè, dopodiché riusciamo per miracolo a trovare un passaggio fino al resort. La sera, davanti ad un pubblico intento a saccheggiare il buffet, mi esibisco in uno show a metà tra Fantozzi e Mr. Bean. Sicuramente la stanchezza avrà allentato i miei riflessi, ma nel seguire la ragazza che stava assegnandoci un tavolo per la cena, non riesco a trovare niente di meglio che mettere un piede in fuori gioco e finire completamente vestito in piscina. Risate a crepapelle, ed il coglione che esce dall'acqua non sapendo dove infilare la testa per la vergogna. Dopo essermi cambiato, torniamo sul luogo del delitto, dove fra le risatine sotto i baffi delle cameriere, possiamo finalmente gustare una meritata cena. Nei giorni seguenti godremo a pieno delle bellezze di Tioman e soprattutto del suo mare, che ammireremo anche effettuando un immersione subacquea, seppur a bassa profondità. Con l’avvicinarsi del ferragosto, notiamo come il resort si stia popolando di italiani, e così, un pomeriggio, in acqua facciamo la conoscenza di una coppia di Bologna, con i quali intratteniamo una simpatica conversazione incentrata sulle reciproche esperienze di viaggio. In questo modo attraversiamo con il pensiero mezzo mondo, mentre ogni tanto qualche pesce si diverte a saltar fuori dall'acqua, forse incuriosito dalla nostra voce. In serata, presso l'agenzia del Berjaya, acquistiamo i biglietti aerei per lasciare l'isola, prenotati qualche giorno prima. Trovarsi tranquillamente al mare il quindici di Agosto, rappresenta per noi una novità, in quanto spesso in questa data siamo stati in movimento. Trascorriamo la giornata in maniera alquanto rilassata e quando, al calar del sole, il cielo si tinge di rosso, il Mar Cinese Meridionale si ritira e giunge l'ora dell'happy hour, comprendiamo malinconicamente che il nostro tempo nella splendida Tioman è ormai scaduto, ed è ora di preparare i bagagli.


La città dello stagno


Il 16 Agosto a mezzogiorno, il piccolo aeromobile della Berjaya Air decolla dalla pista di Tekek, alla volta della capitale malese. Cinquanta minuti di volo, per atterrare nell'avveniristica Kuala Lumpur. Fondata nella seconda metà del secolo scorso dai cercatori di stagno, nel punto di confluenza dei fiumi Kelang e Gombak, Kuala Lumpur o semplicemente KL, come la chiamano i suoi abitanti, ci accoglie con un traffico pazzesco. Impieghiamo circa un'ora di taxi, per raggiungere dall'aeroporto l'hotel Federal, scelto a caso solo perché ubicato nella Jalan Bukit Bintang, una delle tre strade che, assieme alla Jalan Sultan Ismail, ed alla Jalan Imbi, costituiscono il cosiddetto triangolo d'oro. Durante il percorso, notiamo che la città è sostanzialmente un immenso cantiere. Chi immagina la Malaysia come la terra di Sandokan, tutta spiagge e giungla, dovrebbe sicuramente vedere la sua capitale. Grattacieli su grattacieli stanno sorgendo dal nulla, delineando una città dall'aspetto futuristico. Tra gli immensi edifici, spiccano le torri gemelle, di proprietà della Petronas, la compagnia petrolifera malese. Attualmente, detengono il record degli edifici più alti del mondo. Appena arrivati in hotel, ci informiamo sulla disponibilità e ci accordiamo sul prezzo della camera, dopodiché posiamo i bagagli. Il facchino, prima di proporci abbastanza spudoratamente un tour della città ad una cifra da capogiro, si congratula per la nostra scelta, dicendoci furbescamente che questa specie di casermone anni '50, è un "five stars". Indubbiamente il Federal è stato uno di primi hotel di livello internazionale costruiti in città, ma al suo interno tutto è rimasto come trent'anni or sono. Comunque non è sicuramente il lusso che ci interessa, quanto la pulizia ed il prezzo, abbastanza accessibile per il nostro budget già abbondantemente sforato. L'unico inconveniente, in questo hotel dal glorioso passato, è la mancanza nelle camere del controllo individuale dell'aria condizionata, il che significa un freddo pazzesco. Appena usciti dall'hotel e percorso qualche decina di metri sulla Jalan Bukit Bintang, abbiamo subito un deciso assaggio di Kuala Lumpur e della Malaysia. Qui, l’Asia metropolitana ti aggredisce con tutta la sua forza. Traffico, caos, odori pungenti e colori forti, prerogative delle grandi metropoli asiatiche, costituiscono il biglietto da visita di Kuala Lumpur. Notiamo stranamente tra l'altro che, in questa che rappresenta di fatto la zona più commerciale della città, denominata "gold triangle" per la nutrita presenza di centri commerciali e negozi, ci sono in realtà pochi turisti. Visitiamo diversi centri commerciali la cui modernità ed eleganza, farebbero arrossire i nostri "made in Italy". Questi mega shopping-center sono stati eletti a luogo di ritrovo pomeridiano, dalla rampante gioventù malese. Ragazzi vestiti con Jeans Levi's e scarpe Nike e ragazze vestite altrettanto modernamente, ma con tanto di “telekung”, il velo che nasconde i capelli scendendo sulle spalle, in segno di sottomissione all'Islam, affollano gli interni del "Lot 10", del "Kl Plaza", del "Sungei Wang Plaza", dove l'Asia sembra di nuovo scomparire per far spazio all'occidente. Un'immensa folla sembra dimenarsi tra le vetrine, al ritmo della moderna pop music malese sparata a tutto volume. Facendoci consigliare da qualche ragazzo, acquistiamo come nostra consuetudine alcuni nastri locali, che ci ricorderanno nei prossimi anni, il nostro soggiorno a Kuala Lumpur. Entriamo anche in qualche agenzia di viaggi, allo scopo di sondare il terreno riguardo i costi della nostra prossima meta, che potrebbe essere il Borneo, o il parco del Taman Negara. Quando scendiamo in strada per prendere il taxi, restiamo sorpresi da come la disciplinata fila sia costituita prevalentemente da giovanissimi, segno dell'economicità del mezzo di trasporto, ma anche di un diffuso benessere. E' quasi buio quando raggiungiamo in taxi la "Dataran Merdeka". Questa enorme piazza costituita dal solito "Padang" ereditato dagli inglesi, sul quale da un pennone alto 95 metri, sventola la bandiera nazionale, rappresenta l'indipendenza della Malaysia dal colonialismo britannico. Il prossimo 31 Agosto questa nazione festeggerà il quarantesimo anniversario della propria indipendenza, ed in questo nostro viaggio sentiremo spesso pronunciare con grande orgoglio, specialmente in tv, la parola "merdeka", che significa appunto libertà. Su un lato della piazza, chiamata più comunemente "Merdeka Square", spicca il palazzo del sultano Tunkul Abdul Samad. Questo splendido e lungo edificio adibito ora a Corte di Giustizia, è caratterizzato da alcune magnifiche cupole laterali color rame e dalla centrale torre dell'orologio alta 43 metri. Quando il cielo ha ormai assunto un colore violaceo, la Merdeka Square pullula di innamorate coppiette, di festanti ragazzini e di qualche tenera famigliola. Siamo presenti anche noi, completamente immobili, ad ammirare il fiabesco palazzo del sultano Tunkul Abdul Samad, mentre si illumina di centinaia di lampadine, creando un'atmosfera da mille e una notte.

Poco dopo ci spostiamo a piedi nel Central Market, vecchio mercato centrale di generi alimentari, oggi specializzato per lo più nella vendita di prodotti artigianali. Qui, notiamo come il turista non rappresenti in Malaysia una preda da cacciare, in quanto a differenza di altre città asiatiche, possiamo passeggiare completamente indisturbati tra i vari venditori, incuranti della nostra presenza. Dopo aver acquistato un paio di t-shirts, ed aver avuto la conferma che l'emergente Malaysia non è un paese economico, arriviamo nella Jalan Petaling, strada situata nel cuore della Chinatown di Kuala Lumpur.

La sera quest'area compresa tra la Jalan Sultan, la Jalan Cheng Lock e la Jalan Sultan Mohammed, chiude al traffico diventando un enorme "pasar malam", ovvero un mercato notturno dove, tra traffici più o meno leciti, è possibile comperare mercanzie che vanno dalle erbe medicinali cinesi, ai software pirata, dalle carni esotiche, alle musicassette. Camminiamo incuriositi, ed a stretto contatto tra noi per paura di perderci, tra le viuzze delimitate dai banchetti del mercato, con le narici costantemente sollecitate dal pungente odore sprigionato dai durian e dal cibo. Infatti, la tipica usanza asiatica di mangiare sui banchetti degli ambulanti, trova qui la sua apoteosi. Restiamo letteralmente stravolti da un turbinio di colori, odori, suoni, parole incomprensibili, frutti e cibi inimmaginabili. Quando però il sudore diventa incessante, gli odori più aspri e le spinte della folla insopportabili, decidiamo di lasciare la Jalan Petaling per recarci a cena, cambiando però zona. Torniamo indietro attraversando nuovamente la Merdeka Square, fino all'imbocco della Jalan Tuanku Abdul Rahman. Anche questa è una strada che la sera chiude al traffico per improvvisare uno dei tanti "pasar malam" che, a quanto capiamo, qui rappresentano delle vere e proprie istituzioni. Nuova overdose di caos, forti odori, grida incomprensibili e spintoni, fino a quando non scorgiamo un “warung” (banchetto) appartato, il cui aspetto ci sembra decisamente più igienico rispetto agli altri, e ci fermiamo a mangiare qualcosa.

Osserviamo cosa ordinano per lo più gli altri avventori e la nostra scelta cade sui soliti saporiti “satay” e sul “laksa lemak”, costituito da spaghettini piccanti in salsa di cocco, che non ci piacciono però molto. Decidiamo quindi di provare il dolce, prendendo quell’Ais Kacang che tanto aveva attirato sino ad ora la nostra attenzione. Nonostante l’aspetto decisamente poco invitante, troviamo però buono questa specie di gelato, costituito da ghiaccio ricoperto da sciroppo, latte condensato e coloratissime caramelle gelatinose. Con queste insolite prelibatezze malesi nello stomaco e dopo non poche difficoltà per reperire un taxi, ci addormentiamo nella gelida stanza del Federal hotel di Kuala Lumpur.

Stamattina, inevitabilmente è venuto a farmi visita un forte mal di gola. Dopo l'ennesima colazione costituita da uova fritte, bacon di mucca e succo d'arancia, prendiamo un taxi che, attraversando una spenta Kuala Lumpur domenicale, ci conduce al "Matic". Il Malaysian Tourist Information Centre, più sinteticamente chiamato appunto "Matic", è un moderno centro costituito appositamente per i turisti, che qui possono ricevere informazioni, cartine e depliant sui vari stati della Malaysia, nonché sui voli ed altri mezzi di trasporto. Il nostro scopo è quello di reperire informazioni pratiche per raggiungere lo stato del Sarawak nel Borneo malese, od il Taman Negara. Una gentile e preparata impiegata ci fornisce il nominativo e l'indirizzo di un'agenzia di viaggi specializzata nei soggiorni e tours in Borneo. Aderiamo inoltre ad un'escursione nel pomeriggio alle grotte di Batu, la cui visita era nei nostri programmi. Riprendiamo il taxi per dirigerci nuovamente nella Merdeka Square, che troviamo invasa da centinaia di scolari intenti a cimentarsi in varie discipline sportive. Oggi splende un gran sole, e le cupole ramate del palazzo del sultano Tunkul Abdul Samad riflettono una luce abbagliante. Il vessillo malese, sventola superbo dall’alto dell’immenso pennone. Trovo assolutamente affascinante questa Dataran Merdeka, e la calma atmosfera che vi si respira. Dalla piazza della libertà ci dirigiamo alla "Masjid Jame", la moschea del venerdì.

Trovandoci in un paese che ha adottato come propria religione l'Islam, per poter visitare questa moschea in puro stile moresco, Patrizia è inevitabilmente costretta a coprirsi la testa ed il corpo con degli indumenti prestatele gratuitamente all'entrata. L’Islam fu introdotto nel paese dai mercanti arabi, i quali approdavano sistematicamente sulle coste malesi intorno al dodicesimo secolo, e pian piano aumentò la propria influenza tra i malesi, al punto tale da divenire nel 1957 la religione ufficiale della Malaysia. Questo, nonostante i malesi costituiscano il 47% del tessuto sociale del paese (Malaysia peninsulare più Borneo) che, annoverando un altissimo numero di cinesi, indiani, ed altre etnie, è da considerare a pieno merito tra i più cosmopoliti del mondo. Se la religione ufficiale è stata imposta dai malesi, i quali detengono anche le redini della politica, c’è da dire che l’economia è sostanzialmente in mano ai cinesi, e questo crea uno stato di continua tensione, purtroppo sfociato in passato anche in sanguinose lotte. Ci aggiriamo silenziosi tra le alte palme del giardino attiguo a questa splendida moschea edificata nel 1907, la quale presenta la sala di preghiera, dove non possiamo accedere, attorniata da un’ampia fila di sottili colonne. Ogni tanto derido Patrizia con dei rapidi sguardi, perché la vedo proprio impacciata con quel velo e quelle vesti scure, che le arrivano sino ai piedi. Fa decisamente caldo, e cerco mio malgrado di rincuorala, dicendole che, per il rispetto dovuto a questo luogo di culto, dobbiamo osservare le regole, anche se in realtà, l’Islam praticato in Malaysia, è meno ossessivo di quello professato nei paesi arabi. Certo, valgono le stesse regole, ma c’è più tolleranza verso i non musulmani (maggioranza degli abitanti), le donne occupano posti di prestigio e, ad esempio, la carne di maiale, vietatissima per i malesi musulmani, viene normalmente venduta e consumata dai cinesi che, in ogni caso, rappresentano sempre il 35% della popolazione, di un paese… islamico. Dalla Masjid Jame, ci spostiamo a piedi al palazzo delle poste centrali, dove, mentre stavamo scrivendo delle cartoline seduti su una panchina, si avvicina un ragazzo chiedendo a Patrizia se è possibile scattarle una foto accanto a due sue amiche, con in capo l'inevitabile telekung. Mia moglie accetta divertita, ed il ragazzo le scatta praticamente un intero rullino fotografico, tra le risate di felicità delle giovani ragazze compiaciute. Verso le 15, ci troviamo come stabilito al “Matic”, per dirigerci a bordo di un moderno pullman dotato di aria condizionata, alla volta delle grotte di Batu, situate circa 13 chilometri a nord di Kuala Lumpur. Partecipiamo a questa gita in compagnia di turisti dalle varie nazionalità ed età. Lungo il percorso, una volta lasciata la città, effettuiamo diverse soste dal carattere spiccatamente turistico, quali la visita di una tradizionale casa malese. La più interessante, si dimostra comunque quella alla Royal Selangor, la più grande fabbrica di peltri del mondo. Qui, assistiamo in diretta alla sapiente fusione dei tre minerali costituenti il peltro, quali il rame, lo stagno, e l’antimonio. Quando dopo una mezz’ora, raggiungiamo alle grotte di Batu, abbiamo l’impressione di trovarci nel bel mezzo di un diluvio universale. Una pioggia incessante, rende proibitiva l’ascesa dei 272 scivolosi gradini ricavati nel calcare, che conducono alla “grotta della cattedrale”, la principale attrattiva delle Batu caves. Senza non poche difficoltà, raggiungiamo la sommità della scalinata, dove troviamo l’enorme e spettacolare grotta. Al suo interno, decine d’indiani sono intenti a pregare in un piccolo tempio. Le grotte, rimaste quasi sconosciute fino a circa 100 anni fa, sono divenute meta di pellegrinaggi durante l’annuale festa hindu di Thaipusam. Assistere alla processione composta da migliaia di persone provenienti a piedi da Kuala Lumpur, alcune delle quali trafitte da enormi spilloni, dovrebbe essere uno spettacolo senza precedenti. Sfortunatamente, non siamo giunti alla Batu Caves nel mese giusto e dobbiamo quindi limitarci a contemplare lo spettacolo offerto dalle grotte, comunque eccezionale. Quando iniziamo la discesa, la pioggia è ormai cessata, ed i numerosi chioschi situati nel piazzale sottostante, cominciano ad animarsi. La musica indiana viene sparata a tutto volume e l’aspro aroma delle spezie si diffonde rapidamente nell’aria, mescolandosi all’inconfondibile odore dell’erba bagnata. Con grande stupore, constatiamo che alcuni dei nostri compagni di gita, intimoriti dalla pioggia, non sono nemmeno scesi dal pullman. In serata rientriamo in città e ci facciamo lasciare sulla solita “Merdeka Square”, dove ci sediamo su una panchina a fare due conti sulle nostre finanze, assaporando lentamente quell’Ais Kacang, che la sera prima di aveva deliziato. Quando è ormai buio, imbocchiamo di nuovo la Jalan Tuanku Abdul Rahman fino a giungere al degradato e squallido Coliseum hotel, altro storico locale frequentato da Maugham. Entriamo dalla parte del bar, immergendoci immediatamente in un'atmosfera d'altri tempi. Decine di uomini di varia nazionalità ed età, dall’aria poco raccomandabile, affollano il bancone del bar, seminascosti dalla fitta nebbia provocata dal fumo delle sigarette. Quando qualcuno di questi loschi individui si gira e guarda Patrizia, di colpo il timore bussa alla mia porta, ed in fretta passiamo alla sala ristorante dove, sedute ai tavoli, troviamo fortunatamente delle coppie, anche occidentali. A questo punto è lecito chiedersi perché, tra i tanti locali moderni di una città proiettata verso il futuro come Kuala Lumpur, abbiamo scelto di cenare in questo vecchio, spoglio e degradato locale? La risposta è semplice, in quanto sembrerebbe che di fatto, in questo fumoso e sinistro ristorante, si possano gustare le migliori bistecche della città, e ne abbiamo veramente una gran voglia. Ordiniamo quindi la specialità della casa, assieme a due Tiger beers. Una decina di minuti dopo arriva un cameriere che, dopo averci legato intorno al collo un enorme tovagliolo, poggia davanti ad ognuno di noi un'enorme piastra di ghisa contenente una spessa bistecca. Quindi, un suo collega, che nel frattempo è giunto al nostro tavolo, versa celermente dell'olio bollente sulla piastra, provocando una sorta di eruzione vulcanica. Quando dopo qualche secondo il fumo s'è dissolto e riusciamo a vederci l'un l'altra, assaggiamo questa specialità che indubbiamente si rivela eccellente. Con questo quarto di bue nello stomaco, ci addormentiamo per la seconda sera nella gelida stanza del Federal Hotel.

Il giorno seguente, di buon mattino, a bordo della solita “Proton Saga” adibita a taxi, ci rechiamo presso l’agenzia suggeritaci dal “Matic”. Stentiamo a trovarla, in quanto l’Asian Overland Services è collocata in un appartamento ad Ampang Point, una località periferica di Kuala Lumpur, che come città non è affatto piccola. Ci accoglie Lee, un giovane sulla trentina, di origine chiaramente cinese. Constatiamo subito, che il biglietto aereo per Kuching non è affatto economico, mentre troviamo vantaggioso un minipacchetto che ci viene proposto, il quale comprende il trasporto, ed un paio di notti nel Taman Negara. Decidiamo a questo punto di abbandonare l’idea del Borneo, non senza qualche inevitabile rimpianto, e di dedicare il nostro viaggio interamente alla Malaysia peninsulare. La nostra idea è quella di risalire la costa dell’est, sostando magari qualche giorno alle isole Perhentian, descritte in maniera entusiastica dalle guide, e che effettivamente sembrano essere la meta finale di tutti i viaggiatori conosciuti sinora. Consultando il proprio terminale, Lee verifica che il Perhentian Island Resort, ovvero la migliore sistemazione in assoluto, è al gran completo. Ovviamente, anche se non sono negoziati dall’agenzia, ci sono dei piccoli complessi di bungalow dove pensiamo di recarci, ma parlandone con Lee, questi ci sconsiglia fortemente di arrivare nell’arcipelago senza prenotazione, in quanto, oltre alla massiccia affluenza turistica internazionale, sembra che anche molti malesi, si recheranno a festeggiare il 40° anniversario dell’indipendenza da quelle parti. Il malese ci sa fare, e tira fuori un’offerta per Redang, altra isola situata a sud delle Perhentian, alla quale non si può proprio rifiutare. Nel frattempo, da una stanza attigua esce un occidentale, che appuriamo in seguito essere italiano. Si chiama Corrado e ci racconta di essersi trasferito a Kuala Lumpur da circa tre anni e di lavorare a tempo pieno all’Asian Overland Services, la quale non è una semplice agenzia di viaggio, ma uno dei più attivi tour operator locali, da cui si servono anche molti operatori italiani. Questo, spiega effettivamente gli economici prezzi praticati, rispetto a quelli di cui eravamo a conoscenza prima di partire. Comunque, tornando alle nostre prenotazioni, non sappiamo se il malese ci abbia raccontato delle balle sulle Perhentian, al semplice scopo di venderci altre notti, ma, effettivamente, non ci alletta poi molto l’idea di effettuare una traversata in mare di un paio d’ore, con l’ipotetico rischio di dormire sotto le stelle. Inoltre, dalle foto che ci mostra, Redang appare splendida, ed il prezzo del soggiorno al Berjaya è a dir poco straordinario, così accettiamo, senza pensarci ulteriormente. Ci diamo appuntamento nel pomeriggio, e ci tuffiamo nuovamente nella caotica Kuala Lumpur, raggiungendo la moschea nazionale. Questa imponente moschea, edificata nel 1965, ci accoglie maestosa con il suo minareto alto ben 73 metri, e con la sua azzurra cupola principale a forma di stella a 18 punte, le quali rappresentano i 13 stati che costituiscono la Malaysia, ed i 5 pilastri dell’Islam. Altre 48 cupole minori completano l’opera, la quale sembra sia costata circa dieci milioni di dollari. Altro velo e lunga veste scura per Patrizia, dopodiché entriamo separatamente per una breve visita. Poco dopo, raggiungiamo a piedi la splendida stazione ferroviaria, caratterizzata da magnifiche guglie e minareti laterali, ma il cui interno, riprende abbastanza fedelmente lo stile delle stazioni ferroviarie inglesi di epoca vittoriana.

 

Dopo aver percorso qualche decina di metri, lasciandoci alle spalle la stazione centrale, ritroviamo la bolgia di chinatown e della sua Jalan Petaling. Praticamente lo stesso caos di due sere fa, con l'aggravante che oggi circolano anche le automobili. Ci rifugiamo dapprima nel tempio di Chan See Shi Yuen, nel quale, fra draghi e demoni, assistiamo alle particolari preghiere dei fedeli, recitate bruciando bastoncini di incenso, ed in seguito ci rechiamo al fresco di un locale, dove consumiamo lautamente una gustosa “wanton soup”.

Nel pomeriggio torniamo quindi all’Asian Overland Services, dove ritroviamo Lee, che sfoderando il solito simpatico sorriso, ci consegna i nostri vouchers e ci saluta affettuosamente. Non possiamo non constatare che, se a Singapore avevamo trovato una buona occasione nella piccola agenzia di Chinatown, qui, considerato quanto abbiamo pagato, abbiamo fatto un vero e proprio affare. Trascorriamo l’ultima serata a Kuala Lumpur gironzolando sulla Jalan Melayu, una via dal carattere spiccatamente indiano, fitta di negozi che vendono tessuti, sari, ed altri tipici oggetti, quasi a volerci ricordare che con il loro 8%, gli indiani sono parte integrante di questo puzzle multietnico ed intrigante che è la Malaysia. Il cielo si è ormai oscurato e mentre torniamo in taxi in hotel, notiamo brillare in lontananza le luci delle “Petronas Towers”, indiscussi simboli attuali di questa metropoli, capitale di un paese ambizioso, il cui obbiettivo è quello di arrivare entro il 2020 nell’ambito dei paesi più ricchi e industrializzati del mondo. Alle otto del mattino del 19 di Agosto, siamo già nella hall dello Swiss Garden Hotel, luogo d’incontro per la partenza alla volta del Taman Negara National Park, distante circa 200 chilometri. Rimaniamo alquanto sbalorditi sfogliando il New Straits Times, giornale locale in lingua inglese, il quale accenna ad una forte crisi, che ha coinvolto effettivamente tutti i paesi del sudest asiatico. La situazione sembra allarmante, e le borse già da qualche giorno sono in caduta libera. Arriva il nostro pullman, ed imbarchiamo i bagagli accomodandoci all’interno, dove facciamo la conoscenza di altri turisti dalle svariate nazionalità. Scambiando quattro chiacchiere lungo il tragitto, abbiamo la conferma che si recheranno per la maggior parte alle isole Perhentian. Il nostro Lee, avrà quindi detto la verità? Questo è un dubbio che non scioglieremo mai. Comunque, dopo circa quattro ore raggiungiamo Kuala Tembeling, punto d’accesso al parco, dove, dopo aver mostrato il nostro voucher, veniamo muniti di un biglietto e fatti accomodare su delle panchine in riva al fiume, nel quale notiamo un cartello che riporta l’emblematica scritta “Selamat Datang” (benvenuti). Effettivamente la scritta è incoraggiante, considerato che il marrone del fiume Tambeling scompare qualche centinaio di metri avanti, dietro una curva dalla quale appaiono un’impenetrabile vegetazione, ed una densa foschia. Mentre aspettiamo di salire a bordo, sappiamo che dovremo navigare in quella direzione, addentrandoci per circa sessanta chilometri.


Il trionfo della natura


Qualche decina di minuti dopo, salpiamo a bordo di una lunga lancia dal tetto coperto, la quale ospita diversi passeggeri. Siamo fortunati, in quanto parte per prima, seguita subito dopo da altre tre, consentendoci in questo modo di avere una libera visuale dei paesaggi che si aprono dinnanzi a noi. In breve ci allontaniamo dal piccolo imbarcadero, spingendoci nel cuore del parco, dove regna un silenzio assoluto, interrotto unicamente dal ronzio dei motori. Il Taman Negara (parco nazionale in malese), copre un territorio di circa 4.350 chilometri quadrati, ed è situato al confine tra gli stati del Pahang, Kelentan e Terengganu. Da quanto leggiamo, sembrerebbe che, effettivamente, la giungla che ricopre il parco sia la più antica della terra, esistendo da oltre 130 milioni di anni, e non essendo mai stata modificata dall’andirivieni delle ultime glaciazioni. Nel parco, il cui prezioso ecosistema è stato mantenuto grazie al fatto che lo stesso è accessibile solo in barca, vivono più di 250 specie di uccelli, oltre a numerosi rettili e mammiferi fra i quali cervi, tapiri, rinoceronti di Sumatra, leopardi, elefanti, ma non è certo facile avvistarli, così come rimane quasi impossibile ammirare le ultime tigri che vivono nel folto della foresta vergine, le quali rappresentano ormai, quasi delle assolute rarità nel sudest asiatico. Il viaggio, seppur lungo, si dimostra più piacevole del previsto. In circa quattro ore di navigazione, si alternano zone in cui il fiume scorre impetuoso, a zone dove il barcaiolo deve fare particolare attenzione, considerata la scarsità di acqua, tanto che la lancia tocca i fondali. Inoltre, sulle sponde, si alternano ripetutamente tratti di vegetazione inaccessibile, a piccole spiaggette dove pascolano tranquillamente piccole mandrie di bufali indiani, a spettacolari alberi dai cui rami saltano agilmente delle piccole scimmie. Siamo entusiasti di quello che vediamo, ma restiamo completamente ammutoliti, quando su una spiaggia vediamo stazionare un gruppo di “Orang Asli”. Gli Orang Asli (popolo originario) rappresentano un’altra etnia di minoranza che, assieme alle tre principali (malesi, cinesi, indiani), costituiscono quel crogiolo razziale che di fatto è la Malaysia. Sono in realtà il popolo che abitava la penisola prima dell’arrivo dei malesi e da un relativo censimento effettuato negli ultimi anni, il loro numero dovrebbe variare dalle 70.000 alle 80.000 unità, di cui ben oltre la metà vivono ancora nella giungla. Gli Orang Asli si dividono a loro volta in “Senoi”, i più numerosi, i quali sembra siano giunti dal nord dalla Cambogia e dal Vietnam, in “Proto-Malesi” per lo più provenienti da Sumatra, ed in “Negrito”, i meno numerosi, considerati a tutti gli effetti i primissimi abitanti della penisola malese. Quelli che scorgiamo durante la nostra navigazione, appartengono a quest’ultimo ceppo, e sono facilmente identificabili dai loro tratti somatici, con i capelli ricciuti e la pelle scura.

Nel tardo pomeriggio arriviamo a Kuala Tahan, dove sorge la direzione del parco, che raggiungiamo dopo una ripida scalinata. Prendiamo possesso del nostro bungalow, completamente immerso nella folta vegetazione. Mentre apro i nostri borsoni, sento Patrizia esclamare delle grida di stupore. La raggiungo velocemente nel piccolo terrazzino posteriore, e la trovo in compagnia di un piccolo gruppo di scimmie, alle quali porgiamo divertiti dei biscotti che ci eravamo portati dietro da Kuala Lumpur. Usciamo poco dopo, notando che le scimmiotte si aggirano ovunque nel complesso, il quale annovera anche un dormitorio e dei punti dov’è possibile piantare la propria tenda. Facciamo conoscenza della nostra guida, originaria del posto e molto socievole. Dice di chiamarsi con un nome per noi veramente incomprensibile, ma sorridendo afferma “chiamatemi pure Serafino, così fanno tutti gli italiani che ho conosciuto”. Ci illustra con l’ausilio di una cartina le possibili escursioni nel Taman Negara, e quelle che sono comprese nel pacchetto da noi acquistato. Ci rendiamo immediatamente conto, che il tempo che abbiamo riservato al parco sarà insufficiente e ci informiamo circa le possibilità di rimanere un giorno in più, ma purtroppo è già tutto prenotato, anche in dormitorio, e capiamo ancora una volta di esser stati anche fortunati. La foresta circostante inizia ad adombrare il cielo, quasi inghiottendolo con la sua imponenza. Ceniamo nell’attiguo ristorante, il cui buffet propone piatti della cucina internazionale, ma che giudichiamo di qualità decisamente mediocre, e subito dopo ci ritroviamo all’appuntamento convenuto con Serafino. Assieme ad altri turisti ci addentriamo nella giungla per un trekking notturno. Nel buio più totale, con il sottofondo dettato da misteriosi suoni, il ragazzo illumina sapientemente la vegetazione circostante, facendo apparire dal nulla una serie incredibili di insetti. Rientriamo soddisfatti alla base, dove salutiamo la nostra guida, dandoci appuntamento all’indomani e recandoci perentoriamente al nostro bungalow per una meritata dormita. Nel cuore della notte scoppia un violento temporale, il quale sembra amplificare i rumori provenienti dalla giungla. All’improvviso udiamo dei ripetuti colpi inflitti alla nostra porta, ma lo stato di dormiveglia in cui ci troviamo, ci fa pensare inevitabilmente al vento, fino a quando non riusciamo ad ascoltare chiaramente una sorta di grugnito. Mi alzo di scatto impaurito, recandomi repentinamente alla finestra, dove riesco a scorgere una specie di cinghiale che si aggira inquieto nei paraggi del nostro bungalow. Stento a crederci e quasi non riesco a raccontarlo a Patrizia, che mi chiede preoccupata cosa vedo. Fortunatamente l’animale trova qualcosa di meglio a cui dedicarsi, ed anche noi possiamo tornare a coricarci, addormentandoci in questa foresta primordiale.Il mattino seguente incredibilmente splende il sole, e la fitta vegetazione bagnata appare ancor più bella. Ci rechiamo a fare colazione, dopodiché c’incontriamo con Serafino, il quale ci accompagna per un nuovo trekking, partendo come al solito dal campo base. Oggi siamo soli e praticamente il malese sarà la nostra guida personale. Ci consiglia di intensificare le dosi di repellente, soprattutto sulle caviglie, in quanto avendo piovuto sostanzialmente l’intera notte, camminando nella vegetazione, ci sono concrete possibilità di imbattersi in qualche fastidiosa sanguisuga. Procediamo lentamente, allontanandoci gradualmente da Kuala Tahan e conversando con Serafino, il quale ci racconta qualcosa sul suo lavoro e sui dintorni, dov’è cresciuto. Stabiliamo subito un buon feeling con il ragazzo, che troviamo decisamente simpatico. Man mano che ci addentriamo all’interno della giungla, notiamo coma la luce penetri faticosamente attraverso gli enormi alberi, e come il caldo diventi gradatamente insopportabile, complice l’elevato tasso di umidità. I percorsi sono ben segnati da appositi cartelli, i quali indicano anche le distanze, ed i relativi tempi di percorrenza.

Ci muoviamo affascinati in questo intrico fittissimo di piante, dove ammiriamo moltissime orchidee e gli increbili “Tualang”, giganteschi alberi che raggiungono gli ottanta metri di altezza.

Ad un tratto Serafino ci indica di rimanere in silenzio, e nella fitta vegetazione riusciamo a scorgere un piccolo esemplare di tapiro, che scompare nuovamente subito dopo. Il ragazzo ci racconta che spesso, molti turisti rimangono delusi, poiché non riescono a vedere molti animali, ma il segreto consiste nell’allontanarsi da Kuala Tahan anche di parecchi chilometri, e magari dormire almeno una notte in uno dei numerosi capanni di osservazione, appositamente allestiti in prossimità di sorgenti saline, dove gli animali si recano a leccare il sale. Confesso che il pensiero di andarmene all’indomani mi tormenta. Continuiamo a camminare su questi sentieri, sino a quando non notiamo una serie di ponti in corda sospesi. Capiamo che siamo giunti al famoso Canopy Walkway, e ci cimentiamo subito ad attraversare compiaciuti queste passerelle, godendo di una visuale incomparabile della foresta sottostante. Vari tipi di piante tropicali, per la maggior parte a noi sconosciute, s’intrecciano creando un fittissimo mondo verde, che appare ai nostri occhi come qualcosa d’incantato, di fatato, al cui cospetto non possiamo che meravigliarci, e rendere omaggio in doveroso silenzio, ascoltando i suoni che provengono dal suo impenetrabile interno. Percorriamo come bambini divertiti i ponti che si estendono per una lunghezza complessiva di circa 400 metri, distratti ogni tanto da qualche scimmia che fa capolino tra le cime dei giganteschi alberi, o da un uccello che spicca improvvisamente il volo.

Una volta scesi, ritroviamo Serafino il quale ci dice che è ora di rientrare a Kuala Tahan per il pranzo, ma proprio non ne vogliamo sapere e così ci diamo appuntamento nel primo pomeriggio presso la direzione del parco, e continuiamo da soli a girare nei numerosi sentieri, badando di non allontanarci troppo, ma soprattutto di non perderci. Intorno alle 15, come da accordi, ci ritroviamo nel punto convenuto e salpiamo a bordo di una “long boat”, che imbocca velocemente un affluente del Sungai Tembeling, penetrando di fatto nella fitta foresta tropicale. La giungla, vista dal basso, all’altezza del fiume, assume un altro aspetto, ma la velocità delle rumorose “long boat”, quasi fa sfuggire quei minuziosi particolari che andrebbero visti e vissuti con più attenzione. Navighiamo per circa un’ora sulle ferrose acque color rosso, superando agevolmente delle piccole rapide che creano spruzzi rinfrescanti, fino a raggiungere una piccola spiaggia sulla quale vengono ormeggiate tutte le imbarcazioni. Una breve passeggiata all’interno ci conduce alla meta del nostro viaggio, ovvero le spumeggianti rapide di Lata Berkoh. Qui, una volta svestiti, ci tuffiamo in un laghetto creato dalle piccole cascate, sebbene confesso che inizialmente siamo stati leggermente titubanti, ripensando alle numerose e gigantesche iguane osservate nel corso della navigazione. Una volta in acqua, ci sentiamo però completamente a nostro agio, ed aiutandoci a vicenda, riusciamo a raggiungere proprio le rapide, dove, aggrappati ad alcune rocce, godiamo di un sensazionale idromassaggio naturale.

Restiamo per qualche decina di minuti in questo stato, ammaliati dalla bellezza del posto, e spaziando con lo sguardo tra l’effervescenza dell’acqua ed il verde della giungla. Una volta stanchi, ci lasciamo andare dolcemente, facendoci trascinare dal fiume che, dopo averci inevitabilmente strusciato su qualche piccola sporgenza, ci rituffa nuovamente nel piccolo laghetto sottostante. Un’esperienza indimenticabile. Poiché la giornata sta volgendo purtroppo al termine, così come la nostra permanenza al Taman Negara, chiediamo a Serafino cos’altro possiamo vedere prima che tramonti il sole, e ci consiglia di far visita ad un villaggio degli “Orang Asli”. Ci stacchiamo quindi dalle altre lance, perentoriamente dirette a Kuala Tahan, ed imbocchiamo il Sungai Tembeling, approdando una ventina di minuti dopo su una piccola spiaggia sassosa. Il ragazzo ci spiega alcune basilari regole comportamentali da adottare, considerato che stiamo facendo visita ad un villaggio tradizionale. La maggior parte degli Orang Asli preferiscono ancora vivere isolati nella foresta, rifiutando qualsiasi forma di modernità, dedicandosi alla caccia, ed alla raccolta di erbe, frutti e radici. Spesso, gli unici contatti che hanno con il resto del paese, avviene tramite baratto, cedendo degli artigianali oggetti in “rotan”, ed approvvigionandosi di utensili di metallo e beni di primaria necessità come il sale. Serafino ci spiega che il governo malese è piuttosto sensibile al problema, tanto che ha anche istituito l’Ufficio per le Questioni degli Orang Asli, provvedendo ad edificare scuole ed ambulatori nei pressi dei villaggi, ma sovente gli stessi risultano vuoti, in quanto il “popolo originario” continua a curarsi con la medicina tradizionale, ed i bambini rifiutano sistematicamente un’istruzione, troppo spesso causa secondo i genitori, di negative contaminazioni da parte di un mondo peggiore. Chissà, se effettivamente avranno ragione…Quando arriviamo al villaggio, la Malaysia e lo stesso Taman Negara ci sembrano lontani anni luce. I tratti somatici degli abitanti, i fuochi sparsi, le semplici capanne costituite da foglie intrecciate, fanno apparire questa parte del sudest asiatico come un piccolo lembo d’Africa.

Veniamo immediatamente catapultati in una realtà totalmente diversa, e facciamo un piccolo giro all’interno, rimanendo piuttosto meravigliati da quanto si presenta ai nostri occhi increduli. Ci viene presentato il capo villaggio, il quale ci mostra orgoglioso delle cerbottane, spiegandocene l’uso. Questa sorta di turistica rappresentazione, stona però notevolmente con ciò che vediamo, tanto che restiamo sbigottiti e, forse, anche egoisticamente delusi. Serafino ci spiega che il villaggio è autentico, ma essendo lo stesso “convenzionato” alle visite giornaliere, gli abitanti ricevono un piccolo compenso in cambio di alcune esibizioni. Nonostante esistano decine di villaggi “Orang Asli” totalmente isolati, questo si è in un certo modo adeguato, cedendo alle lusinghe del dio denaro, forse indispensabile in certi casi, anche a tribù legate a forme primordiali di sopravvivenza. Andiamo via con le immagini negli occhi dei numerosi bambini nudi che corrono per il villaggio e che fanno il bagno nel fiume Tembeling, proprio vicino alla nostra barca. Sarà una cartolina che porteremo per sempre con noi, come ricordo della Malaysia. La sera decidiamo di non avvalerci dell’insipido buffet del resort, ma ci rechiamo in uno dei minuscoli ristoranti galleggianti situati proprio nel piccolo villaggio di Kuala Tahan, dalla parte opposta rispetto direzione del parco. Con un forte urlo segnaliamo la nostra presenza, e subito udiamo il rumore della barca che viene a prenderci. Ceniamo quindi su questa spoglia palafitta in riva al fiume, con un cospicuo nugolo di fameliche zanzare che ci danno il tormento, consumando il solito “nasi goreng”, ed una zuppa di non so che cosa, dove galleggiano tristemente ambigue verdure. Ci addormentiamo quindi per l’ultima volta con il sottofondo musicale della giungla, pensando malinconicamente all’indomani, quando dovremo necessariamente lasciare il parco, questo grandioso trionfo della natura, che ha saputo suscitare in noi delle sensazioni uniche, che non scorderemo credo tanto facilmente.


La costa dell’est


Il 21 di Agosto, al mattino presto, siamo già davanti alla direzione del parco. Troviamo inaspettatamente ad attenderci Serafino, che avevamo già salutato la sera precedente. Ci aiuta a caricare i nostri borsoni su una lancia, ed aspetta la nostra partenza. Il momento degli addii nei viaggi è sempre molto triste, ma stavolta, quando odo il motore dell’imbarcazione rombare, vengo preso da un attimo di pura commozione. Abbraccio il malese con le lacrime agli occhi, sapendo che sicuramente non lo rivedrò più, e continuiamo a salutarci mentre salpiamo velocemente, fino a quando, non resterà di lui che un puntino all’orizzonte perso nel verde della vegetazione, ed un piacevole ricordo di un amico che ci ha accompagnato in questo eccezionale parco. Dopo circa tre ore, approdiamo al molo di Kuala Tembeling. Ci avviciniamo ad alcuni autisti che stazionano nei paraggi, sondando il terreno sui costi delle corse in taxi fino alla costa est, ma troviamo gli stessi decisamente proibitivi per le nostre “sanguinanti” finanze. Inoltre, questi sono per la maggior parte taxi collettivi a 4 o 6 posti, mezzi di trasporto assai diffusi in Malaysia. Proviamo quindi a chiedere ad altri viaggiatori, ma sfortunatamente nessuno sembra dirigersi da quelle parti. Per pochi ringitt ci facciamo quindi condurre a Jerantut, un paese a circa sedici chilometri di distanza, da dove partono giornalmente degli autobus per la costa est. Veniamo quindi lasciati sul piazzale dove stazionano gli autobus in partenza, e ci viene indicato da un autista un mezzo rottame, che tra una decina di minuti dovrebbe partire per Kuantan. Carichiamo i borsoni direttamente all’interno, non sussistendo un bagagliaio, e ci accomodiamo aspettando per qualche minuto, fino a quando, il conducente prende posto e parte con l’autobus praticamente vuoto. Sfortunatamente il pullman effettua numerose fermate lungo il tragitto, ed il viaggio risulterà più lungo del previsto, anche se siamo ampiamente ripagati dai paesaggi che si manifestano ai nostri occhi, veramente sensazionali. Nei pressi di un villaggio, sale a bordo un’intera scolaresca. Sono bellissimi questi bambini, i quali ci osservano timidi e curiosi, vestiti con le loro pittoresche divise. In circa quattro ore arriviamo a Kuantan sulla costa dell’est, dove prendiamo un taxi per raggiungere Cherating, situata circa 45 chilometri a nord. Scambiamo quattro chiacchiere con l’autista, il quale dice di conoscere un ottimo hotel a prezzi modici. Durante le tre ore di navigazione sul fiume Tembeling e le quattro ore di autobus, abbiamo evidenziato qualche sistemazione sulla nostra guida, ma decidiamo di vedere dove ci porta il malese, che troviamo tra l’altro veramente simpatico, mentre ci parla guardandoci attraverso lo specchietto retrovisore, con la fronte ridotta dal “songkok”, il tipico berretto nero dei musulmani malesi, che qui sembrano indossare tutti. Infatti, gli abitanti della costa est della Malaysia peninsulare, vivono più tradizionalmente rispetto al resto del paese, tanto che nel Terengganu e soprattutto nel Kelentan all’estremo nord, l’Islam è più sentito e negli ultimi anni ci sono state preoccupanti correnti politiche filo-integraliste. Il malese imbocca una stradina segnalata dal cartello con su scritto “The Legend Resort” e subito gli diciamo che appare troppo caro per noi, ma continua a ripeterci “no problem”, “look, look” e così ci accompagna alla reception, dove sembra conoscere gli impiegati. L’equivalente in ringitt di circa quarantamilalire ci sembra una cifra più che accettabile, anche se non capiamo come possa costare così poco soggiornare in una struttura del genere. Quando poco dopo, non appena posati i bagagli in camera, usciamo per recarci in spiaggia, ci rendiamo immediatamente conto del perché di un costo così basso, da cui avrà probabilmente ricavato la sua percentuale anche il taxista. Non c’è nessuno !!! L’hotel è praticamente vuoto, e l’enorme piscina, la più grande che abbia mai visto, ci appare desolata nella sua solitudine. La spiaggia di Cherating, su cui mettiamo piede quando il sole sta quasi tramontando, è decisamente spettacolare. Effettuiamo una lunga passeggiata su questo spiaggione immenso cosparso da altissime palme da cocco, il quale ricorda molto Chaweng sull’isola di Samui in Thailandia, sebbene qui l’arenile sia molto più ampio, ed il mare, piuttosto mosso, non si presenta molto invitante. Il mattino successivo, sotto un sole splendente, lasciamo Cherating, e ci facciamo accompagnare in macchina da un impiegato dell’hotel alla stazione degli autobus, situata in un paese vicino. Qui, ancora una volta siamo i soli occidentali, ed un gruppo di ragazzine fa il giro della piccola stazione almeno tre volte per vedere mia moglie, la quale sembra riscuotere un particolare successo tra le teenagers locali. Nonostante partiamo a bordo di un autobus affollatissimo, il viaggio lungo la costa risulta decisamente ricco di fascino. Osservando l’esterno dai finestrini, veniamo spesso salutati da bambini incuriositi, mentre il percorso è tutto un susseguirsi di altissime ondulanti palme da cocco, dietro le quali si intravedono a tratti piccoli kampung (villaggi) di pescatori, le cui case sono costruite per la maggior parte su palafitte. Nel tardo pomeriggio, dopo diverse ore di autobus, arriviamo a Kuala Terengganu, capitale dell’omonimo stato, la quale si presenta semideserta. Oggi è infatti venerdì, giorno di festa per il musulmani, ed il Terengganu, stato che non ha risentito nel corso degli anni delle influenze cinesi ed indiane, è uno dei più tradizionali, dove l’Islam la fa solennemente da padrone. Infatti, appena scesi dall’autobus notiamo moltissime persone che indossano ancora il tradizionale “baju”, la tunica a maniche lunghe sulla quale avvolgono i tipici “sarong” che scendono fino al ginocchio, ed il “songkok haji”, il bianco copricapo che mostra l’orgoglio di aver partecipato al pellegrinaggio alla Mecca. E’ ormai tardi e siamo piuttosto stanchi, quindi decidiamo di fermarci a Kuala Terengganu per la notte e ci presentiamo al Seaview Hotel, una sistemazione senza pretese, ma centrale, dove contrattiamo una camera con aria condizionata, riuscendo ad ottenerla grosso modo per circa ventimilalire. Dopo esserci fatti una strameritata doccia, scendiamo per un giro, ammirando nelle vicinanze il pregevole palazzo del sultano, localmente chiamato “Istana Maziah”. Nonostante il potere dei sultani sia stato notevolmente ridimensionato dopo la costituzione del 1957, gli stessi continuano ad esercitare verso la popolazione un grande carisma, soprattutto nelle zone rurali e più conservatrici, in quanto sono considerati a tutti gli effetti come diretti discendenti da stirpi leggendarie, ed assoluti portatori della cultura e storia malese. Vale la pena di ricordare, che la Malaysia è uno stato federale indipendente nell’ambito del Commonwealth, e che lo stesso è costituito da 13 stati, più i distretti federali di Kuala Lumpur nella Malaysia peninsulare e Labuan nel Borneo. Ognuno degli stati possiede proprie assemblee legislative e propri organi esecutivi. Quattro degli stessi hanno a capo un governatore eletto ogni cinque anni, mentre nove stati sono guidati appunto da un sultano, il cui potere è ereditario. I nove sultani eleggono il capo supremo della federazione chiamato “Yang Di Pertuan Agong” (Re della Malaysia), il quale resta in carica per cinque anni, mentre il potere esecutivo è tenuto di fatto dal parlamento, composto da camera e senato. La camera dei rappresentanti (Dewan Rakyat) è composta da 180 membri eletti a suffragio universale, mentre il senato (Dewan Negara) è composto da 70 membri, 40 dei quali eletti direttamente dal Re, mentre gli altri 30 sono nominati dalle assemblee legislative dei vari stati. Anche a livello politico questa Malaysia mostra degli intrecci particolari, tanto che quella che di fatto dovrebbe essere una monarchia costituzionale, sembra molto una repubblica, anche se poi i sultani continuano ad esser venerati, nonostante detengano ancora immani ricchezze di cui fanno ampio sfoggio, esibendo ad esempio delle sfavillanti Rolls Royce tutte d’oro. La sera ceniamo frugalmente presso uno dei tanti banchetti ambulanti presenti nel centro, dopodiché andiamo a coricarci esausti nell’angusta camera del Seaview Hotel. Il mattino seguente decidiamo di lasciare Kuala Terengganu, e torniamo in autobus nuovamente a sud, scendendo di circa quindici chilometri, fino a raggiungere la località di Marang. Questo villaggio è splendido, letteralmente costituito da case su palafitte, disseminate lungo delle spiagge dorate orlate da lunghissime palme, ma la principale caratteristica che lo contraddistingue, è comunque rappresentata dagli innumerevoli e coloratissimi “kolek”, le tipiche imbarcazioni malesi, che ammiriamo ferme sulla spiaggia, ma anche mentre solcano poderosamente le azzurre acque del Mar Cinese Meridionale. Per quanto Marang sia attraente, decidiamo comunque di non fermarci, ma salpiamo in barca alla volta di Kapas, una meravigliosa isoletta distante circa sei chilometri, dove stentiamo non poco a trovare un alloggio per la notte. Una volta scesi dalla barca, passiamo in rassegna i vari bungalow, ma risultano tutti al gran completo. Un ragazzo ci suggerisce di continuare a camminare per una decina di minuti, poiché forse, al Kapas Garden Resort, l’ultima sistemazione della spiaggia, potremmo trovare da dormire. Così facciamo, trascinando sotto il sole il peso dei nostri borsoni, ma ancora una volta siamo realmente fortunati in questo viaggio, in quanto troviamo una spartanissima stanza libera, seppur a caro prezzo. Comunque non tutto il male viene per nuocere, in quanto il nostro alloggio è molto vicino ad uno dei migliori punti per fare snorkeling, e così ne approfittiamo, trascorrendo l’intero pomeriggio in acqua, tra piccoli pesci colorati, alcune formazioni coralline, e decine di bagnanti, per lo più malesi, che affollano questa bellissima isoletta tropicale chiamata Kapas, contribuendo forse a renderla più folkloristica, ma allontanandola decisamente dagli standard di isola deserta, tanto cara all’immaginario collettivo occidentale.


Il parco marino di Redang


Il 23 di Agosto lasciamo Kapas di buon mattino. Ritroviamo il bellissimo Kampung di Marang, il quale ci appare ancor più variopinto con le sue molteplici imbarcazioni ormeggiate, e saliamo sul primo autobus di passaggio. Una quarantina di minuti dopo siamo nuovamente alla stazione di Kuala Terengganu, quest’oggi più caotica e confusionaria. Decidiamo quindi di accelerare i tempi, contrattando la corsa in taxi fino a Merang, piccolo villaggio situato a nord, che raggiungiamo in poco più di mezz’ora. Prima di giungere al molo, troviamo un check-point della catena Berjaya, destinato per lo più ai turisti dei viaggi organizzati, mentre noi, pur disponendo della prenotazione nel medesimo resort sull’isola di Redang, non abbiamo incluso il trasferimento. La compagnia malese dispone di un proprio catamarano che trasporta i clienti sull’isola e potremmo usufruirne anche noi, pagando ovviamente la corsa, ma preferiamo affidarci ad una specie di pirata che ci adesca appena mettiamo piede sul molo, il quale, dopo innumerevoli contrattazioni, ci trasporta velocemente su un potente fuoribordo. Dopo una quarantina di minuti di ripetuti spruzzi, intravediamo l’arcipelago di Redang, ed approdiamo sulla principale delle isole, da cui appunto prende il nome. Appena sbarcati ci viene incontro un impiegato del Berjaya che, dopo aver visionato il nostro voucher, ci porge il benvenuto e ci invita ad attendere gli altri passeggeri, che da lì a pochi minuti sarebbero giunti sull’isola a bordo del catamarano. Attraversiamo il pontile che divide la banchina dalla terraferma, passeggiando proprio a fianco di un villaggio su palafitte abitato da pescatori . Si tratta di un villaggio tradizionale, non menzionato dalle guide e lontano dall’essere un’attrattiva turistica. Ci colpiscono molto dei bambini che giocano felicemente in acqua, senza tante pretese e giocattoli sofisticati.

Veniamo condotti al nostro albergo a bordo di un minivan, percorrendo l’unica strada dell’isola, lunga grosso modo un paio di chilometri, la quale collega appunto l’imbarcadero con l’hotel. Lungo il percorso notiamo un cantiere, e ci viene spiegato che le case in costruzione saranno occupate dai pescatori del villaggio su palafitte, il cui Kampung viene letteralmente devastato ogni anno dai monsoni. Inoltre, gli abitanti del villaggio stanno gradatamente abbandonando il mestiere di pescatori, per dedicarsi a quello più redditizio del settore turistico, impiegandosi nei vari hotel, ed improvvisandosi guide in un arcipelago che si sta lentamente consacrando al turismo. Egoisticamente pensiamo di essere “forse” fortunati, potendo ancora osservare un lembo d’Asia che lentamente sta scomparendo, ma il nostro dubbio viene immediatamente dissipato quando, dopo pochi metri, intravediamo parte del campo da golf a nove buche che fa parte del Berjaya Redang Golf & Spa Resort, distaccamento del nostro hotel, prevalentemente indicato per chi ama questo sport, ma che in realtà non possiede spiaggia, come intravediamo quando il minivan si ferma, facendo scendere alcuni ospiti. Qualche centinaio di metri più avanti, finalmente arriviamo alla nostra meta. Il Berjaya Redang Beach Resort è spettacolare. Ci viene assegnato un bungalow spaziosissimo, dotato di ogni genere di comfort, il cui stile rispecchia quello delle classiche case malesi su palafitte. Ma la cosa che più c’interessa è ovviamente il mare, e così scendiamo subito in spiaggia, la quale ci appare incredibilmente bella. Certo, si potrebbe obiettare circa l’impatto devastante, che la costruzione del resort avrà indubbiamente avuto sull’ambiente, ma la Teluk Dalam Kecil, la scenografica baia su cui sorge il Berjaya, è di una bellezza difficile da descrivere. Il mare, dalle trasparentissime acque sempre calme, lambisce una luminosa spiaggia a forma di mezzaluna, sulla quale si ergono maestose alcune altissime ed affusolate palme da cocco.

Ci tuffiamo immediatamente in acqua, dapprima nuotando tranquillamente e godendo dell’incomparabile visuale in lontananza del resort, seminascosto dalla palme, poi effettuando uno snorkeling a dir poco superlativo. Sul lato sinistro della spiaggia, s’innalzano alcune imponenti rocce, sotto le quali troviamo una serie interminabile di coralli vivi, ed una miriade di pesci di varie specie, compresi degli squaletti talmente belli da apparire finti. Incredibile, uno straordinario snorkeling a poche pinnate dal nostro bungalow, questo è quanto si prospetta nella prossima settimana. Confesso che l’entusiasmo arriva alle stelle, poiché Redang non rientrava nei nostri progetti, ma da quello che vediamo, l’isola è a dir poco eccezionale. La sera ceniamo lautamente, usufruendo dell’ottimo buffet offerto dall’unico ristorante del resort, dopodiché, considerato che il Berjaya sorge solitario nella parte nord dell’isola, e che non c’è la minima forma di animazione, non ci resta niente di meglio che addormentarci.

Il giorno seguente, imbocchiamo una piccola stradina sterrata che parte vicino al pontile del resort, sulla parte destra della spiaggia. Dopo aver agevolmente superato alcune rocce, i nostri occhi osservano l’impossibile. Quella che vediamo è la classica cartolina tropicale. Teluk Dalam Besar, questo è il magico nome della candida e solitaria spiaggia poco distante dal nostro albergo, il cui rigoglioso palmeto che la delimita, arriva quasi fino al mare. Alle sue spalle inizia la giungla, che occupa sostanzialmente l’interno dell’isola. In questi giorni torneremo spesso su questa spiaggia, compiacendoci di una solitudine difficilmente riscontrabile in altri posti.

Spesso, entrando nella calme acque, il cui colore varia dal blu cobalto al verde smeraldo a seconda della posizione del sole e delle nuvole, si viene mordicchiati da minuscoli pesci, che sembrano divertirsi a darci fastidio, quasi a volerci ricordare che siamo ospiti in un territorio di loro competenza. La Teluk Dalam Besar è il luogo delle nostre riflessioni, dove, lontano da tutto e da tutti, ripensiamo al nostro viaggio, ma anche all’Italia, ai nostri cari, alle nostre attività, ai nostri progetti, alle nostre preoccupazioni, e tutto ci appare così lontano, così distaccato da questa immensa quiete, da questo piccolo eden senza tempo. Nel pomeriggio raggiungiamo in pochi minuti di barca Pulau Pinang, sede del parco marino. Redang, come già scritto, non è un’unica isola, ma un arcipelago composto da nove isole, dalla cui principale prende il nome: Redang, Pinang, Ling, Ekor Tebu, Kerengga Kechil, Kerengga Besar, Paku Kechil, Paku Besar e Pulau Lima. L’arcipelago è stato dichiarato parco marino nel 1994, appositamente per proteggere il prezioso ecosistema, il quale conserva ben 58 varietà di alghe marine e 100 differenti tipi di coralli, oltre ovviamente innumerevoli specie di pesci. Certo, mentre approdiamo sulla spiaggia di Pulau Pinang e visitiamo il centro informazioni, osservando delle tavole che illustrano le bellezze marine presenti nell’arcipelago, non possiamo fare a meno di chiederci che senso avesse, costruire un resort come il Berjaya in un paradiso del genere, ma poi comprendiamo che la ferrea regola del business non si ferma purtroppo dinnanzi a niente, ed onestamente non pensiamo che Redang rimarrà a lungo così, come abbiamo modo di ammirarla oggi. Poco vicino il centro informazioni, imbocchiamo un sentiero che si snoda attraverso molteplici piante tropicali, fino a condurci in cima ad una collinetta, dove osserviamo con meraviglia l’intero arcipelago, il quale offre un colpo d’occhio sensazionale, mentre a breve distanza dal molo, troviamo invece una lunga spiaggia costituita da coralli morti. Ancora intensi attimi di solitudine, di sospirata quiete, mentre il cielo si sta lentamente annuvolando, velando la visuale del villaggio di pescatori sull’isola opposta, che contempliamo mentre l’acqua ci bagna la vita. Appare tutto così irreale, così disgiunto dalla solita routine quotidiana, dal nostro traffico metropolitano, dalle nostre irrequietezze, forse legate ad un sistema che ci è stato imposto, e vorremmo rimanere qui per sempre, semplicemente inondati da questa limpida acqua calda, circondati da questa coinvolgente e strepitosa natura.

Il mattino successivo partecipiamo ad un giro in barca, prevalentemente finalizzato allo snorkeling. Abbiamo modo di ammirare gli altri lati dell’isola di Redang, osservando l’alternarsi di pareti rocciose, a solitarie spiagge immacolate d’incomparabile bellezza, presso le quali la barca si ferma, consentendoci di effettuare un memorabile snorkeling. Così trascorriamo la giornata, perdendoci nella magia dei fondali incantati di quest’isola, ricchi di coralli, pesci pagliaccio, pesci angelo, o di enormi cernie, che incredibilmente nuotano a pochi metri dalla riva, come accade nella Pasir Bujang, una spettacolare baia dove in alcuni mesi dell’anno vengono a deporre le uova i grandi esemplari di tartaruga verde. Siamo esterrefatti, quasi commossi da tale bellezza, da quest’incredibile esplosione di colori, ma soprattutto dall’opportunità di poter ammirare codeste meraviglie della natura.

Trascorrono i giorni, abbreviando la nostra permanenza sull’isola, che si diverte a regalarci quotidianamente sprazzi di un magico universo.

Così, spesso facciamo snorkeling proprio davanti al nostro cottage, spesso andiamo a meditare sulla spettacolare ed isolata Teluk Dalam Besar, a volte noleggiamo un kayak, che ci consente di allontanarci autonomamente e di ammirare integralmente la trasparenza di questo incredibile mare, ma anche di raggiungere delle piccole insenature deserte, perché, sebbene il Berjaya annoveri diversi bungalow, le spiagge che raggiungiamo giornalmente, sembrano ricevere unicamente la nostra presenza. Il nostro passatempo serale consiste nel guardare il cielo, il quale sembra comprendere un’infinità di stelle, che appaiono splendenti come non mai, mentre il profumo del mare sembra augurarci dolcemente la buonanotte.

Abbiamo anche la tv in camera, ed il notiziario locale continua a parlare di questa grande crisi economica che ha colpito l’Asia, lanciando seralmente dei preoccupanti segnali di allarme per questa nazione così ambiziosa. L’ultimo giorno della nostra permanenza ci facciamo condurre a Pulau Lima, che raggiungiamo in circa venti minuti di motoscafo. Mentre ci allontaniamo velocemente da Redang, ci chiediamo quale, tra le diverse isole che si stagliano all’orizzonte sarà Lima, fino a quando non puntiamo diretti su una di esse, ed il malese che ci accompagna spegne il motore ad una trentina di metri dalle sue coste. Eccola Pulau Lima, una piccola isola rocciosa, con qualche palma che sembra esser stata trapiantata lì casualmente. Il motoscafo scivola dolcemente su un mare che presenta la trasparenza del cristallo, dove infiniti gruppi di vivaci coralli quasi fuoriescono dall’acqua, ed arrivano praticamente sino a riva, tanto che dobbiamo sbarcare diversi metri prima. Il ragazzo ci chiede quanto tempo desideriamo trattenerci e gli diciamo di tornare tra quattro ore. Si, in questo lasso di tempo resteremo soli su quest’isola, la “nostra isola”, sperduta nel Mar Cinese Meridionale. Adagiamo il nostro zainetto all’ombra di una palma e facciamo un giretto orientativo, constatando subito l’assenza di vere e proprie spiagge, considerata l’alta concentrazione di rocce. Da una piccola caletta costituita da coralli morti e conchiglie, iniziamo quindi il nostro snorkeling, tra incredibili variopinte formazioni coralline, e coloratissimi pesci tropicali. Restiamo fortemente colpiti da alcuni coralli blu e da un paio di tartarughe che, a pochi metri dalla riva, scivolano teneramente verso l’azzurro fondale degradante verso il basso. Ci allontaniamo di diversi metri, anche perché, quella che si presenta ai nostri occhi, è un’immensa prateria da esplorare costituita da coralli, spesso situati a bassa profondità. All’improvviso il suggestivo silenzio nel quale siamo assorti è rotto dalla urla di Patrizia, la quale mi sta chiamando a squarciagola. Distolgo quindi lo sguardo da uno splendido pesce che stava giocando a nascondino tra i coralli, per guardare cosa accade sopra il pelo dell’acqua e vedo mia moglie gridare intimorita ad una ventina di metri di distanza: “Bene…, uno squalo… è veramente grosso… torna indietro”. L’acqua è talmente limpida che riesco chiaramente a distinguere una pinna e torno decisamente verso riva, mentre Patrizia nel frattempo ha già fatto la stesso. Ancora una volta la Malaysia ha deciso di emozionarci e sorprenderci con la sua esuberante natura. Se a Tioman c’eravamo impauriti trovandoci faccia a faccia con uno squalo, qui ci siamo veramente terrorizzati, poiché l’isola è disabitata, non c’è anima viva nel raggio di qualche chilometro, ed il nostro amico verrà a riprenderci solo all’orario convenuto. Non oso minimamente pensare cosa avremmo potuto fare in caso di aggressione da parte dello squalo. Ci sediamo quindi su una minuscola spiaggetta, ammirando compiaciuti decine di conchiglie dalle svariate forme e dimensioni, mentre all’improvviso notiamo un motoscafo in lontananza e capiamo che sono già trascorse quattro ore. Saliamo a bordo, da dove osserviamo ancora una volta gli immensi giardini di corallo che circondano l’isola, poi, una volta acceso il motore, ci allontaniamo fissando Pulau Lima, che lentamente andrà a confondersi con gli altri isolotti dell’arcipelago. Approdiamo quindi sulla Pasir Panjang Beach, l’unica altra spiaggia popolata di Redang, dopo quella sulla quale sorge il Berjaya. Qui, sono presenti alcuni piccoli hotel più o meno spartani, poco distanti l’uno dall’altro. Trascorriamo un paio d’ore su questa bella spiaggia, abbastanza popolata, ma ugualmente ricca di fascino, dopodiché rientriamo al nostro albergo, dove trascorriamo l’ultimo pomeriggio facendo snorkeling, e ritrovandoci ancora una volta in completa solitudine sulla meravigliosa Teluk Dalam Besar. La sera il giovane chef australiano propone un sontuoso buffet a base di aragoste e frutti di mare, quasi a voler accrescere intenzionalmente il nostro rammarico. Dopo cena ci sediamo per l’ultima volta in riva al mare, questa sera più silenzioso che mai, da dove ammiriamo malinconicamente lo sconfinato cielo stellato di Redang, un’isola che ci ha fatto sognare.


Il tradizionalista Kelentan


Il 30 di Agosto lasciamo l’arcipelago di Redang, raggiungendo in barca il villaggio costiero di Merang. Appena giunti sul molo, troviamo ad attenderci una decina di taxisti, pronti a trasportarci in ogni località. Contrattiamo con un ragazzo il costo della corsa fino a Kota Bharu, capitale dello stato del Kelentan, situata all’estremo nord, a ridosso del confine con la Thailandia. Dopo aver raggiunto un sofferto accordo, partiamo quindi a bordo di un minivan, ma prima passiamo a prendere un amico del giovane malese, che gli farà compagnia durante il viaggio di ritorno. Riprendiamo il nostro viaggio lungo la costa dell’est, la quale si dimostra come sempre estremamente affascinante, con il solito intervallarsi di Kampung, piccole moschee rurali, spiagge assolate, interminabili allineamenti di altissime palme, placidi estuari di fiumi dove stazionano ormeggiate coloratissime barche. Poco dopo aver superato la località di Kuala Besut entriamo nel Kelentan, il più tradizionale e conservatore degli stati, geloso custode delle più antiche tradizioni malesi, forse perché colonizzato tra gli ultimi dagli inglesi, dopo secoli trascorsi anche sotto il dominio giavanese e siamese. Alcune ore dopo arriviamo a Kota Bharu e ci facciamo lasciare all’Hotel Perdana, appena fuori il centro, dopo aver contrattato il giusto prezzo per una camera.

E’ quasi mezzogiorno quando raggiungiamo passeggiando la “Padang Merdeka”, piazza della libertà, delimitata dalla Moschea di Stato ultimata nel 1926, dal Palazzo del Consiglio religioso e dalla Istana Balai Besar (Palazzo della grande sala delle udienze), circondato da un forte in legno edificato nel 1844. Alcune sale all’interno del palazzo sono ancora utilizzate per le cerimonie pubbliche.Dalla Merdeka Square ci spostiamo verso quella che probabilmente rappresenta la principale attrattiva di Kota Bharu, ovvero il mercato centrale. Entriamo in questo edificio ottagonale di quattro piani, rischiarato da un tetto trasparente che lascia filtrare i raggi del sole, quest’oggi particolarmente splendente. Troviamo subito al piano terreno i famosi banchetti di frutta e verdura, ma saliamo al piano superiore, dove sono allestite alcune bancarelle di abbigliamento, per godere meglio dello spettacolo. Qui, osserviamo con meraviglia queste splendide venditrici, magicamente illuminate dalla luce soffusa che scende dal tetto trasparente. Sono tutte vestite con lunghi colorati sarong di batik, ed hanno il capo inevitabilmente avvolto da un velo. Espongono ordinatamente le loro mercanzie, che variano dai comuni ortaggi ai durian, dai peperoncini rossi stipati in grossi mucchi alle banane di vario genere, dal pesce essiccato al ginger fresco, dal pollame ai germogli di fiore di loto. Veramente uno spettacolo, al quale assistiamo entusiasti, mentre il muezzin della vicina Moschea richiama i fedeli alla preghiera.

Usciamo nuovamente all’aperto, continuando la nostra passeggiata in questa città poco attraente. Entriamo quindi nell’ufficio della Malaysia Airlines, dove acquistiamo due biglietti aerei per Penang, isola situata sulla costa occidentale, dopodiché torniamo indietro verso il nostro hotel e raggiungiamo il Gelanggang Seni in Jalan Sultan Mahmud. In questo centro culturale assistiamo divertiti ad alcuni caratteristici spettacoli, come una gara di “main gasing”, le particolari trottole giganti, il cui peso arriva facilmente ai 7 chilogrammi, e ad una simulazione del “silat”, particolare arte marziale, che in questa occasione viene comunque rappresentata sotto forma di danza, nella quale i contendenti, vestiti con abiti tradizionali, si affrontano in lenti movimenti figurati, ed in improvvisi attacchi corpo a corpo.

I simpatici malesi del centro culturale ci invitano a tornare dopo cena, allo scopo di assistere ad un’esibizione musicale. Torniamo quindi indietro, fino a raggiungere il mercato notturno, vicino alla stazione centrale degli autobus. Qui troviamo un’infinità di banchetti, dove, tra nubi di fumo, intensi colori e penetranti profumi, ci sediamo per mangiare qualcosa. Assaggiamo la specialità locale chiamata “ayam percik”, la quale consiste in un pollo dal forte sapore, marinato e infilzato in spiedini, che accompagniamo con un “nasi dadang”, il solito immancabile riso, stavolta però cotto con tonno e spezie dal gusto difficilmente distinguibile. Torniamo quindi a piedi al Gelanggang Seni, che raggiungiamo alle nove in punto. Veniamo fatti accomodare in una specie di teatro, mentre sul palco, i musicisti vestiti con abiti tradizionali iniziano a suonare. Uno di loro ad un tratto ci illustra i nomi e le caratteristiche dei vari strumenti che compongono la particolare orchestra, dopodiché domanda agli spettatori la propria nazionalità. Vengono invitati a salire sul palco diversi turisti, tutti appartenenti a paesi diversi, ai quali vengono affidati vari strumenti da suonare. Poiché non ci sono italiani, nonostante gli iniziali rifiuti, non posso esimermi dal salire, anche se confesso che ne avrei fatto volentieri a meno. Mi vengono consegnate delle percussioni, ed un simpatico ragazzo mi illustra come usarle. Poi a rotazione ci fanno provare, dopodiché iniziamo a suonare tutti assieme, in compagnia degli esperti musicisti malesi, creando una musica molto simile a quella prodotta dall’orchestra indonesiana “gamelan”. Così, mentre il ritmo diventa sempre più travolgente, il pubblico applaude divertito e Patrizia ride beffardamente salutandomi, in una calda sera di fine Agosto mi ritrovo impacciato a suonare queste percussioni a Kota Bharu, capitale del Kelentan, in compagnia di viaggiatori di varie nazionalità, con i quali creiamo forse la band più cosmopolita del sudest asiatico.

Il giorno seguente echeggia con orgoglio la parola “Merdeka”, ovvero libertà. Oggi la Malaysia compie il 40° anniversario dell’indipendenza. Grandi festeggiamenti vengono celebrati ovunque, e dappertutto nel paese sono seguite in tv le immagini trasmesse in diretta dalla Merdeka Square di Kuala Lumpur. Anche il centro di Kota Bharu, nei pressi della piccola Padang Merdeka, questa mattina è molto animato. Molte persone indossano i loro abiti migliori, costituiti per lo più da splendidi raffinati broccati in seta con fili d’oro e d’argento, localmente chiamati “songket”. I banchetti degli ambulanti sono già intensamente al lavoro diffondendo nell’aria pungenti odori, mentre poco distante, con nostra grande sorpresa, assistiamo ad una gara di canto dei “merbuk”, specie di colombi, i quali vengono rinchiusi in grosse gabbie di bambù finemente lavorate e sospese a dei pali alti circa otto metri. Nonostante però, lo spettacolo sia per noi inconsueto, ci dirigiamo presso la vicina stazione degli autobus, dalla quale partiamo alla volta della Pantay Cahaia Bulan, la “spiaggia del chiaro di luna”, dove trascorriamo l’intera mattinata. La spiaggia, abbastanza lunga, quest’oggi è molto affollata dai locali intenti a festeggiare la loro indipendenza, e sebbene quindi il mare non sia particolarmente attraente, troviamo la Pantay Cahaia Bulan molto pittoresca, grazie anche ai grandi e decorati aquiloni malesi che volano imperiosi nel limpido cielo. Dopo aver consumato presso un chiosco ambulante alcune disgustose “keropok”, delle speziate polpettine di pesce, facciamo una passeggiata tra le innumerevoli botteghe di batik e songket, posizionate lungo la strada alle spalle della popolare spiaggia, dopodiché prendiamo il primo autobus di passaggio e torniamo in città. Alle ore 15, bagagli in mano, ci troviamo già all’interno del piccolo aeroporto di Kota Bharu. L’unica sala per lepartenze è notevolmente affollata, e questo è facilmente riconducibile alla festa nazionale, che ha fatto spostare migliaia di persone all’interno dello stato, oltre ovviamente al costo dei biglietti aerei, relativamente scarso nella Malaysia peninsulare.


La città di Re Giorgio.


Nel tardo pomeriggio atterriamo all’aeroporto internazionale Bayan Lepas di Penang, isola collegata alla penisola malese dal “Penang Bridge”, il ponte che, con i suoi sette chilometri di lunghezza, è ai nostri giorni il più esteso dell’Asia. Poco prima di uscire, troviamo uno stand della catena alberghiera nazionale Berjaya, da noi collaudata nelle isole di Tioman e Redang. Con una veloce telefonata, una gentile ragazza ci riserva una camera nell’omonimo hotel, posizionato nella città di Georgetown, che raggiungiamo in circa trenta minuti di taxi. Ormai abituati a dormire in comodi bungalow di legno a pochi passi dal mare, o in austere camere cittadine, restiamo alquanto meravigliati dalla lussuosissima stanza di questo albergo, dotata di ogni genere di comfort, che paghiamo circa settantamilalire, ovvero una cifra più che accettabile, considerato quanto ci viene offerto. Lasciamo comunque al volo i borsoni nella fastosa camera e ci dirigiamo sul lungomare, dove, poco distante dal Fort Cornwallis, troviamo una serie incredibile di banchetti, che espandono ovunque nell’aria i forti aromi del cibo ricco di spezie. Avendo trovato il posto dove cenare, continuiamo quindi a passeggiare e visitiamo le immediate vicinanze a partire proprio dalle decadenti mura del Fort Cornwallis, finito di erigere nel 1810 dal capitano inglese Francis Light, colui che nel 1786 fondò la cittadina di Georgetown, in onore di Re Giorgio d’Inghilterra. Pulau Pinang (isola della noce di Betel) fu ceduta a Light dal sultano del Kedah, in cambio di protezione dagli eserciti thai e indonesiani che lo minacciavano rispettivamente a nord e sud. In pochi anni Light trasformò la città in uno dei porti più attivi del sudest asiatico, tra l’altro esente da dazio, ed incoraggiò astutamente l’arrivo dei coloni, promettendo la proprietà di tutta la terra che sarebbero riusciti a lavorare. Sebbene l’isola fosse inizialmente disabitata, ai primi dell’ottocento Penang contava già oltre diecimila abitanti, la maggior parte dei quali erano costituiti ovviamente dai soliti cinesi, che vi si riversarono in massa, ma arrivarono anche indiani, arabi, ed altri, rendendola estremamente cosmopolita. Visitiamo in seguito la Chiesa di St. George, costruita nel 1818, la quale detiene il primato di essere la più antica chiesa anglicana del sudest asiatico. Nei paraggi spicca l’imponente figura dell’Eastern and Oriental Hotel, un altro pezzo di storia, che fu costruito nel 1885 dai fratelli armeni Sarky, gli stessi proprietari del Raffles di Singapore che abbiamo visto alcune settimane fa. Era nostra intenzione visitarlo, ma con estremo dispiacere lo troviamo chiuso, in quanto sembra che ci siano in corso dei lavori di restauro. Inizia ormai ad imbrunire e ci sediamo presso uno dei numerosi banchetti posti sul lungomare, consumando l’ennesimo nasi goreng del nostro viaggio e dei gustosi frutti di mare cucinati su una carbonella da alcune belle signore velate. Il mattino seguente, dopo una notte estremamente riposante, ci alziamo molto presto e ci rechiamo all’ufficio della Thai Airways, poco distante dal nostro albergo. Non sapendo quale sarebbe stato precisamente il nostro itinerario all’interno della Malaysia, avevamo acquistato dall’Italia i biglietti di andata e ritorno tra le città di Bangkok e Singapore, ma trovandoci oggi a Penang, vorremmo sostituire il volo di domani sera con uno in partenza da qui, evitando in questo modo di tornare fino all’estrema punta meridionale della penisola malese. Purtroppo però non c’è niente da fare. L’impiegata della compagnia aerea ci spiega che non può accontentarci, in quanto non può intervenire su dei biglietti aerei emessi dall’Italia. Non sappiamo in realtà se sia vero, ma dopo aver constatato che la malese sembra irremovibile, ci rechiamo velocemente all’ufficio della vicina Malaysian Airlines, dove acquistiamo due biglietti per Johore Baru, città situata al confine con Singapore. Così, domani lasceremo Penang, isola situata praticamente al confine con la Thailandia, voleremo verso sud per centinaia di chilometri, e prenderemo in serata un nuovo volo per Bangkok, tornando quindi a nord. Si prospetta decisamente una bella giornata. Sono ancora le dieci quando ci immergiamo nell’atmosfera di Georgetown, città che dopo pochi passi, mostra la sua chiara impronta cinese.

Attorniati da decine di risciò a pedali, passeggiamo tranquillamente sulla Lebuh Chulia e sulla parallela Lebuh Campbell, due vie piene di vita, di ristoranti, di negozi, ma anche di coloratissimi mercati che riempiono le strade di colori e l’aria di intensi profumi. In Cannon Square troviamo il Khoo Kongsi, un palazzo-tempio cinese, sede del clan Khoo. Qui, a quasi un mese di distanza dalla nostra visita alla chinatown di Singapore, riemerge perentoriamente la storia dei clan che controllavano la prostituzione, il mercato del lavoro, il commercio dell’oppio. L’edificio è altamente spettacolare, con il tetto sormontato da imponenti dragoni e le pareti riccamente decorate.

Entriamo all’interno, dove restiamo quasi intimoriti dinnanzi al fiabesco intreccio di piastrelle, bassorilievi, lampade, fini incisioni. Dal Khoo Kongsi, proseguendo attraverso le viuzze acciottolate di questo quartiere abitato esclusivamente da cinesi, giungiamo al Weld Quay, il lungo molo dove stazionano decine di case su palafitte. Facciamo due passi lunga una banchina, costeggiando queste semplici case, al cui esterno osserviamo con grande stupore dei piatti contenenti del riso e del cibo in genere, ma anche banconote di piccolo taglio, bastoncini d’incenso, ritratti di sconosciute divinità. La modernità scompare di nuovo, per lasciar spazio alle antiche tradizioni, alle sacralità.

Torniamo indietro imboccando nuovamente la Lebuh Chulia, dove resistiamo ripetutamente alle insistenze di numerosi conducenti di risciò, che in continuazione si propongono per dei giri della città, ma anche per acquisti di vario genere, droga compresa. Raggiungiamo quindi la Lebuh Pitt, altra via centrale e trafficata di Georgetown, dove troviamo la Capitan Kling Mosque, la gialla moschea costituita da un solo minareto, che prende il nome dal capo dei primi coloni musulmani indiani, i quali venivano chiamati Chulia o appunto Kling.

La Lebuh Pitt rappresenta perfettamente quel crogiolo razziale e culturale che di fatto è la Malaysia, in quanto, a brevissima distanza, nella parallela Lebuh Queen troviamo il tempio hindu di Sri Mariamman, che presenta il solito colorato e spettacolare gopuram finemente scolpito, mentre più avanti, sulla stessa Lebuh Pitt, incontriamo il tempio cinese di Kuan Yin, la dea della misericordia, all’esterno del quale presenziamo ad un curioso e breve spettacolo di marionette, ma anche alle solite offerte rituali, dove vengono bruciate decine di bastoncini di incenso. Il tempio è notevolmente affollato anche all’interno, dove assistiamo ad altri riti cerimoniali a noi sconosciuti, ma forse per questo estremamente affascinanti.

E’ ormai pomeriggio inoltrato quando ci riversiamo nuovamente nelle caotiche strade di Georgetown, città decisamente accattivante e ricca di contrasti, la quale sembra pronta a stupirti in ogni momento. Così, accade ad esempio che mentre stiamo comodamente seduti su una panchina, udiamo in lontananza il rumore di una banda ed osserviamo poco dopo sbucare dal nulla un corteo funebre, dove la bara viene sorretta da alcune corde e portata in giro per la città, accompagnata dalle note vivaci, ma allo stesso tempo tristi di una piccola orchestra, seguita da decine di persone che espongono colorati stendardi. Verso le 17 ci spostiamo alla Penang Hill, una collina alta circa 830 metri, dalla cui sommità, che abbiamo raggiunto tramite una funicolare, si gode di una vista incomparabile di Georgetown e dintorni. Passeggiamo compiaciuti al fresco degli adiacenti giardini, dove giocano sereni alcuni bambini e dove stazionano intere famigliole. Il sole sta ormai adagiandosi lentamente nel mare, facendo risplendere il Penang Bridge, che ammiriamo in tutta la sua lunghezza. Restiamo in silenzio ad osservare compiaciuti il tramonto, che sarà purtroppo anche l’ultimo in questa terra. Il 2 di Settembre lasciamo Penang, volando alla volta di Kuala Lumpur e Johore Baru, dal cui aeroporto prendiamo un autobus che ci conduce velocemente a Singapore. In serata ci imbarchiamo sul nostro aereo con destinazione Bangkok, città che ritroveremo per la seconda volta a distanza di qualche anno, una di quelle caotiche metropoli che si amano o si odiano, nella quale trascorreremo i prossimi tre giorni, completando questo mese da trascorrere nel sudest asiatico. Siamo tutti e due stanchi, la lunga giornata trascorsa tra aeroporti, voli e spostamenti vari non è stata delle più rilassanti, ed anche le scomode poltrone dell’aereo ci sembrano alquanto confortevoli. Proviamo un piacevole senso di abbandono, associato ad una malinconia che aumenta gradatamente con il trascorrere dei minuti, perché inevitabilmente comprendiamo che stiamo lasciando una parte di noi in queste terre, e mentre l’aereo decolla puntualmente attraversando il buio cielo asiatico, già proviamo nostalgia per quei sorrisi della gente e per quell’esuberante natura, che non dimenticheremo mai.

Grazie per sempre Malaysia

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