Qualche informazione di carattere generale


La Jamaica è collegata con molte città degli U.SA. da varie compagnie statunitensi e dalla stessa Air Jamaica. Personalmente ho scelto la British Airway che vola almeno quattro volte a settimana  da Londra su Kingston-Montego Bay, consentendo così un'ampia possibilità di programmare il viaggio (atterrare ad esempio su una città e ripartire dall’altra). In alternativa si può acquistare il volo direttamente (senza obblighi di pacchetti da tour operators) dall'Air Europe che raggiunge una volta la settimana direttamente Montego Bay da Milano, dopo una sosta all'Havana.
La Jamaica non è assolutamente una destinazione a buon mercato, anzi, direi che è carissima, soprattutto nel periodo invernale, (Dicembre-Aprile) considerato “alta stagione” e nel quale è concentrato il flusso migratorio dei turisti nordamericani ed europei nell'area caraibica. Effettivamente, questi mesi sono “statisticamente” i migliori per recarsi sull’isola con una buona media di precipitazioni mensili (Dicembre 91 mm. , Gennaio 68 mm. , Marzo 58 mm. , Aprile 63 mm. ), mentre, come nella maggior parte dei Carabi, il tempo peggiora sensibilmente nei mesi di Maggio (149 mm.) e Giugno (139 mm.) per poi migliorare a Luglio (73 mm) e ad Agosto (132 mm) la cui media è abbassata dagli ultimi giorni, nei quali, assieme a Settembre, Ottobre e la prima parte di Novembre, si concentrano la maggior parte delle piogge e spesso si verificano nell’area caraibica violenti uragani.
I principali turisti in Jamaica sono gli statunitensi e sull'isola si paga ovunque indistintamente in dollari USA o Jamaicani. Nel periodo di alta stagione (v. sopra) anche le strutture più semplici sono care per noi.
Quindi o si dorme a casa di qualcuno, o bisogna esser preparati ad un salasso, nonostante il paese sia estremamente povero.Sistemazioni a parte, c'è il problema degli spostamenti. I taxi con regolare licenza, appartenenti alla compagnia Juta, hanno tariffe fisse e anche queste sono abbastanza care. Esempio pratico: Aeroporto di Kingston – Port Antonio (2 ore circa di tragitto) 110 dollari americani.
Per risparmiare, si dovrà dividere la spesa con altre persone (se si troveranno), o (come abbiamo fatto noi) contrattare la corsa con qualche abusivo del quale fidarsi istintivamente a proprio rischio e pericolo, considerata la alta percentuale di rapine ed aggressioni ai danni dei turisti.La terza possibilità consiste nel prendere gli autobus di linea che permetteranno di avere un contatto diretto con la popolazione, ma che si fermano praticamente ogni due minuti e sono stipati all'inverosimile di gente e animali. E’ importante sapere che statisticamente la Jamaica risulta al terzo posto nel mondo per incidenti mortali automobilistici. Le sue strade sono in condizioni pessime, e se si da un’occhiata quanto scrivono sul sito dell' ACI Viaggiare Sicuri sui pericoli per i turisti che viaggiano individualmente nel paese, forse si rinuncia al viaggio. Per i lunghi spostamenti, come ad esempio il tratto Ocho Rios - Negril , consiglio addirittura di prendere l'Air Jamaica Express in quanto costerà molto meno di una normale corsa con un taxi autorizzato e si risparmieranno almeno quattro ore di tempo. Sembra strano, ma quando si vedranno le condizioni delle strade Jamaicane, ci si renderà conto del perchè i taxi con regolare licenza sono così cari. Difficoltà economiche a parte, la Jamaica è uno splendido paese, e la sua gente, nonostante la cattiva propaganda, è a mio parere eccezionale.

Le quattro località più gettonate turisticamente, sono anche quelle che offrono le maggiori attrattive e si trovano tutte nella parte nord dell’isola. Rispettivamente da ovest ad est sono: Negril, Montego Bay, Ocho Rios, Port Antonio.

Noi abbiamo fatto un piccolo tour dell'isola, soggiornando nell’ordine a Port Antonio, Ocho Rios e Negril, ed abbiamo evitato Montego Bay perché caotica, e con poche spiagge pubbliche (le migliori sono quelle dei resort più esclusivi e la famosa “Doctor Cave Beach, decisamente troppo affollata da quanto mi risulta). Port Antonio, nella regione del “Portland”, è la località che più mi è piaciuta, in quanto poco inflazionata turisticamente. Ci sono pochi locali notturni ed un ritmo di vita che scorre lento e tranquillo. Le numerose spiagge sono molto diverse l'una dall'altra e frequentate prevalentemente dai locali. La zona è molto scenografica, in quanto negli anni vi sono stati girati tantissimi films. Parliamo delle numerose spiagge, tutte nascoste nella fittissima vegetazione tropicale: Frenchman's Cove è splendida, anche se molto piccola e bisogna pagare per accedervi. Blue Lagoon è un posto magnifico dall’acqua verde smeraldo, la spiaggetta del Dragon Bay hotel è molto bella, San San Beach è una discreta spiaggia con un bell'isolotto facilmente raggiungibile a nuoto, a Boston Beach si potrà gustare il Jerk originale, non quello fatto con la salsa che vendono un pò ovunque, Long Bay è una spiaggiona selvaggia ed immensa, dalle acque spesso molto mosse. Ancora, a sud di Long Bay si potranno raggiungere le Reach Falls, le cascate della scena d'amore del film "Cocktail".

E' molto bello anche il rafting sul fiume Rio Grande, dove sconsiglio di andare se la sera prima è piovuto, altrimenti si troverà il fiume color marrone, mentre solitamente le acque sono trasparenti e ci si può fare anche il bagno. Il costo è piuttosto caro (45 dollari USA a zattera), ed il percorso dura circa due o tre ore, ma è molto interessante, perchè si naviga sul fiume attraverso delle foreste spettacolari. Anche davanti la stessa cittadina di Port Antonio, c'è un'isoletta facilmente raggiungibile in battello, molto bella, dove trascorrere una buona giornata. Le possibilità sono svariate, io non ci sono andato ad esempio, ma si potrebbe fare una capatina a Kingston, per visitare la casa-museo di Bob Marley, o trascorrere un paio di giorni sulle Blue Montains. A Port Antonio ho soggiornato all'hotel Dragon Bay bellissimo e non proprio economico, ma girando nella zona del Portland ho notato alcune sistemazioni più a buon mercato sulla grande spiaggia di Long Bay, distante da Port Antonio circa 15 miglia, ed ho visitato un’altra struttura ad ovest di Port Antonio costituita da 5 bungalow piuttosto spartani, gestita da un italiano. Hanno anche un sito internet: http://www.italvillage.com/

Questo è invece il sito dell’Associazione guest house di Port Antonio dove è possibile trovare delle gradevoli sistemazioni più a buon mercato

Se oltre alle bellezze naturali si cerca il divertimento puro, allora consiglio di recarsi a Negril, situata esattamente dalla parte opposta dell'isola.
Sulla bellissima Long Bay, tipica e bianchissima spiaggiona tropicale bordata da palme da cocco, lunga circa undici chilometri, si alternano hotel, ristoranti, bar ed ogni forma di divertimento.

Inoltre ogni sera ci sono concerti reggae dal vivo, ed il mare è splendido. E' sicuramente il posto più "giovane" della Jamaica. Qui si possono trovare delle sistemazioni a buon mercato, soprattutto dalla parte della scogliera. Certo è confusionaria, certo gira molta "roba" e c’è parecchia prostituzione maschile e femminile, ma il mare è cristallino, la sabbia di un bianco accecante, ed è possibile praticare dell'ottimo snorkelling e fare delle piacevoli escursioni a sud, prima fra tutte quella sul Black River, un fiume dove vivono ancora i coccodrilli, e sulle eccezionali YS Falls, cascate meno famose di quelle di Ocho Rios, ma altrettanto spettacolari. Altra tappa da non perdere, è inoltre il Rick’s Cafè, dal quale è possibile assistere ad uno spettacolare tramonto. Questo è un discreto sito su Negril per quanto riguarda la scelta degli hotel: http://negril.com/binhotel.htm

Ocho Rios è da considerarsi alla pari di Montego Bay per quanto riguarda i prezzi, sicuramente fra i più alti dell’isola, e le spiagge (le migliori sono quelle degli hotel pìù lussuosi), ed inoltre le due famose località sono accomunate anche dalle numerose navi da crociera che approdano nelle loro baie giornalmente. Ma “Ochi”, come viene comunemente chiamata dai giamaicani, possiede le Dunn’s River Falls, le spettacolari ed altissime cascate immerse in una vegetazione rigogliosa, che vale sicuramente la pena scalare per un divertimento garantito. Sono a mio parere una tappa inevitabile in una visita in Jamaica.


"L'isola delle tre R"

Il mio racconto e foto di viaggio


Quest’isola tormentava da tempo i miei pensieri, sin da quando, esile adolescente, occupavo timidamente i banchi di scuola. Quel caldo genere musicale, seducente e ritmato, ricordo era di gran moda all’epoca, ed il successo su scala mondiale dello stesso, aveva consolidato la leggendaria figura del suo massimo esponente, considerato dalle masse meno abbienti, una sorta di messia del terzo mondo.
Negli ultimi anni avevamo gironzolato abbastanza, tornando più volte anche in paesi dove avevamo lasciato il cuore, ma questa piccola isola, per un motivo o l’altro ci sfuggiva sempre, come quando, pur disponendo delle prenotazioni aeree, fummo costretti a rinunciare in extremis alla partenza, a causa di alcuni gravi disordini legati all’aumento del carburante, con conseguente sospensione dei voli e chiusura degli aeroporti locali. Viaggiammo quindi lontano, dall’altra parte del mondo, scoprendo terre di ineguagliabile bellezza, il cui mito non rende giustizia alla loro reale magnificenza, e di cui ci innamorammo perdutamente, trovando un senso di appagamento che ci accompagnò nei mesi a seguire, quei mesi in cui gli alberi ingialliscono e le foglie cadono tristemente confondendosi con i ricordi.
Mentre di tanto in tanto, riaffiorava prepotentemente il desiderio di rimettersi in viaggio, nei primi giorni d’inverno, durante una di quelle giornate in cui il sole ci saluta presto, troppo presto, stavo mettendo un poco d’ordine nella mia testa e tra alcune vecchie cose, ormai quasi dimenticate. Inaspettatamente ritrovai un vecchio nastro di “Legend”, la raccolta del mitico Bob Marley,  proprio quel grande artista che dettò il tempo agli anni dell’adolescenza, che iniziai a riascoltare ininterrottamente in macchina, durante le interminabili code mattutine nel grigiore metropolitano. Spinto dal ritmo, e da quell’irrequietezza che ha spesso accompagnato la mia esistenza, iniziai, come spesso mi accade quando sogno di visitare un paese, dapprima a leggere appassionatamente, e poi a navigare con la fantasia. Così, dopo qualche tempo, tra prima e seconda, pirati, semafori rossi, vigili e reggae, decisi che la Jamaica non poteva più aspettare.
Alle 17,30 del 21 Gennaio, l’aereo della British Airways effettua il suo atterraggio sulla pista dell’aeroporto Norman Manley di Kingston, collocata di fatto in mezzo al Mar dei Caraibi, sulla lunga striscia di sabbia chiamata “Palisadoes”, distante una ventina di chilometri dal centro della città. Siamo gli unici europei a scendere dal boeing proseguente per Montego Bay e, considerata la brutta reputazione di cui gode questa città, confesso che qualche pensiero negativo mi frulla per la testa. Sbrighiamo facilmente le formalità doganali, dirigendoci verso il recupero bagagli, dove troviamo inesorabilmente ad attenderci una brutta sorpresa. Infatti, dopo un paio di minuti che aspettiamo, ci viene incontro un’impiegata della compagnia aerea che ci informa che tutti i bagagli scaricati sono stati consegnati. Ero sicuro che prima o poi sarebbe successo, il nostro s’è smarrito.
Mentre qualche gocciolina di sudore scende lentamente sulle nostre fronti, quasi a volerci ricordare che ci troviamo ai tropici, compiliamo tristemente la denuncia di smarrimento. Desolati, avviliti e stanchi, cerchiamo di spiegare che non ci tratterremo a Kingston, ma abbiamo riservato solo tre notti a Port Antonio, distante almeno un paio d’ore di auto, e che non ripartiremo da qui, ma da Montego Bay, situata praticamente dall’altra parte dell’isola. L’impiegata della British ci assicura che il nostro borsone arriverà sicuramente con il prossimo dei quattro voli settimanali provenienti da Londra, ma di volta in volta, dovremo comunicarle telefonicamente i nostri recapiti all’interno dell’isola, al fine di permetterle di recapitarci il bagaglio, di cui siamo comunque tenuti a lasciarle le chiavi, per consentirle di riconoscere qualcosa di quanto abbiano elencato sulla denuncia.
Semplice no?
Intanto ci consegnano un kit a testa per la notte e l’equivalente in dollari giamaicani di cento americani per le spese necessarie.
Usciamo dall’aeroporto sentendoci improvvisamente come delle mosche bianche e ci rechiamo nel parcheggio dei taxi con regolare licenza, appartenenti alla compagnia “Juta”. Purtroppo non c’è nessuno che vada nella nostra direzione con il quale possiamo dividere la spesa, anzi, a dire il vero, nel parcheggio non c’è proprio nessun altro cliente tranne noi. Tariffa piena quindi e via cento dollari americani.
Quando è ormai buio, attraversiamo tra mille ingorghi la capitale giamaicana, che si è guadagnata la triste fama di essere una delle città più violente del mondo. Kingston rappresenta ancora oggi la mecca di tutti i poveri giamaicani in cerca di fortuna, che finiscono quasi sempre per accrescere le baraccopoli presenti ai margini della città. In questi ghetti sono purtroppo ancora molto sviluppate numerose forme di epidemie di febbre tifoide, dovute alla mancanza di acqua potabile, e alle fogne a cielo aperto. Il diffuso analfabetismo ha portato la disoccupazione alle stelle e la maggior parte delle decine di migliaia di abitanti di queste baraccopoli, vivono di elemosina e delle forme più disparate di mestieri improvvisati. Alcune zone della città sono totalmente out per gli stranieri, che qui rischierebbero la pelle per un niente. In questa metropoli, dove si concentra circa un terzo della popolazione giamaicana, si verificano circa il 60% del totale dei reati dell’isola, e, oltre ai delinquenti comuni, ci sono decine di bande armate dai vari partiti che si contendono a suon di stragi il potere politico.
Ma Kingston è anche la culla del Rastafarianismo, praticamente sinonimo di Jamaica, sul quale desidero aprire una doverosa parentesi storica. Il movimento derivante dai termini Ras (principe) e Tafari (da temere) in onore dell’imperatore etiope Hailè Salassiè, è nato in Jamaica alla fine degli anni venti come rivendicazione del nazionalismo nero, e si è rapidamente diffuso in molti angoli dei caraibi. Il padre ideologico fu Marcus Garvey, personaggio di spicco dell’America nera dei primi del novecento, creatore di un’associazione per il miglioramento della condizione negra nel mondo, e sostenitore del ritorno alla madre Africa.

Garvey, nato in Jamaica, ma trasferitosi successivamente negli Stati Uniti, aprì sostanzialmente la strada al movimento di Martin Luther King e fondò un giornale chiamato “Negro World”, nonché una compagnia di navigazione, la Black Star Line, che collegava gli Stati Uniti ed i Carabi all’Africa. E’ chiaramente intuibile come le idee di Garvey attecchirono facilmente in un paese povero come la Jamaica, oppresso da anni di colonialismo britannico, e dove la popolazione risulta sostanzialmente composta dai discendenti degli schiavi africani. Dalle sue idee nacque appunto un  movimento premonitore di un imminente giorno nel quale, un redentore nero sarebbe diventato re in Africa. Lo stesso fu presto facilmente identificato in Ras Tafari, il quale prese il nome di Hailè Selassiè, incoronato imperatore d’Etiopia nel 1930.

Selassiè, venne considerato addirittura diretto discendente del Re Salomone e dalla regina di Saba, nonché re dei re e leone conquistatore della tribù di giudea. Fu rapidamente ritenuto come Dio incarnato, colui che avrebbe ricondotto i rastafariani nella terra promessa chiamata Sion, dal luogo d’esilio nel quale ora si trovavano, denominato Babilonia, ed inteso come la Jamaica, ma soprattutto come lo stato bianco potente e corrotto che comanda in pratica il mondo. Alla base del movimento, c’è quindi una comune origine africana che unisce i giamaicani e la numerosa gente di colore sparsa nel mondo, infondendo loro un messaggio di speranza, un senso alla loro triste ed ingiusta storia di esiliati, un ritrovamento di una propria identità culturale. Col trascorrere degli anni, il movimento fece numerosi proseliti sull’isola, i quali, a simboleggiare la criniera del leone di giudea, adottarono come capigliatura le lunghe trecce chiamate dreadlocks, usate da alcune tribù dell’Africa orientale, ed indossarono il “Tam”, il tipico berretto di lana con i colori etiopi. I rastafariani asseriscono che la razza africana è una tra le predilette da Dio e la loro dottrina prende spunto dalla Bibbia, la quale sostengono che raccontasse originariamente la storia dei popoli africani e che sia stata nel corso dei secoli riscritta dai bianchi per dominare i neri. I “Rasta” rifiutano il principio cristiano della redenzione dopo la morte, in quanto convinti che il paradiso esista sulla terra, ed il loro pensiero ha accresciuto negli anni la diffidenza e la sfiducia della popolazione appartenente ai ceti meno abbienti nei confronti dei bianchi. I Rasta inoltre si nutrono solo di cibi naturali, non ambiscono a possedere beni materiali e nutrono la loro forza tramite l’inseparabile Bibbia e la fede nella divinità Ras Tafari. Circa il 60% degli appartenenti al movimento fuma la marijuana (comunemente chiamata ganja), importata sull’isola a fine ottocento dai lavoratori indiani e diffusa tutt’oggi praticamente su tutto il territorio, anche se viene considerata illegale a tutti gli effetti dalle autorità. I Rastafariani asseriscono che la ganja li aiuta a restare in contatto con Dio, prendendo fanaticamente spunto da un salmo della bibbia nel quale è scritto “Fai crescere il fieno per gli armenti e l’erba al servizio dell’uomo”.
Lo spregiudicato cantante reggae Peter Tosh, assassinato nella sua casa di Kingston nel 1987, lanciò spesso nei suoi brani un chiaro messaggio circa la legalizzazione della stessa sostanza proibita.
Certamente il “rasta” più famoso e sinonimo stesso di Jamaica, resta comunque Bob Marley, il cantante che ha fatto conoscere il Reggae, la musica di protesta nata nei ghetti di Kingston (come evoluzione dei precedenti generi “mento”, “ska” e “rocksteady”) in tutto il mondo.

Marley, che crebbe praticamente in uno dei sobborghi più diffamati di Kingston, dove fondò assieme a Peter Tosh e Bunny Livingstone il leggendario gruppo dei “Wailers”, ebbe il merito di diffondere in Jamaica il messaggio della lotta non violenta contro “Babilonia” e fu osannato in tutto il terzo mondo per i suoi testi contro le oppressioni razziali, le ingiustizie e l’amore. La musica reggae, autorevole mezzo di divulgazione della dottrina rasta, grazie al suo massimo esponente ha valicato barriere razziali, linguistiche e di classe, divenendo un genere musicale che ha influenzato non poco le rock-star più famose del mondo.
Il corpo del “profeta del reggae”, prematuramente scomparso di tumore a Miami l’11 maggio 1981 a soli 36 anni, fu esposto alcuni giorni dopo nella National Arena di Kingston per dodici ore.
Le sue “dreadloks” furono raccolte nel classico berretto rosso, verde, oro, nella mano destra gli fu messa una bibbia, a testimonianza del suo credo alla filosofia rasta, mentre nella sinistra la sua chitarra, che ha donato al mondo alcune tra le più belle melodie mai scritte. Il giorno seguente si svolsero i funerali nella chiesa etiope ortodossa, ed un corteo funebre si snodò per decine di chilometri (ben 80 a quanto si narra), accompagnando il corpo del grande Bob fino al distretto di St. Ann, dove tutt’ora è sepolto, .
Purtroppo, col trascorrere degli anni il Rastafarianismo è diventato anche una copertura per i delinquenti comuni e gli imbroglioni, che nascondendosi dietro le dreadlock, sfruttano il movimento per alimentare i loro traffici e per spillar dollari ai turisti. Gli autentici “Rasta”, che scendono di rado nelle città, sono elementi pacifici, religiosi all’inverosimile nei confronti di Jah (Dio), ed in simbiosi con la natura, dalla quale traggono tutto quanto loro necessita, compresa la loro erba sacra "Ganja"
Dai finestrini del taxi entrano le note sincopate della musica reggae sparata a tutto volume ad ogni angolo delle strade, le nostre narici percepiscono l’odore pungente del fumo proveniente dai bidoni sui quali cuoce il Jerk, il piatto nazionale giamaicano, mentre i nostri occhi vedono uno degli spettacoli più deprimenti ai quali si possa assistere, quello della miseria, tanta miseria, che si manifesta con interminabili file di costruzioni di lamiera, case di cartone, mendicanti, storpi. Indubbiamente tutto ciò stona con l’immagine patinata dei cataloghi turistici, i quali presentano la Jamaica come la terra del perenne divertimento.
Ci sarebbe piaciuto fermarci almeno questa notte, soprattutto per visitare all’indomani la superturistica casa-museo di Bob Marley, ma disponiamo di poco tempo, e così, imboccando la dissestata strada statale A3, ci lasciamo alle spalle Kingston, per addentrarci in balia del nostro sconosciuto autista nel buio di una fitta foresta, dalla quale usciamo solo dopo un paio d’ore di ripetute curve, una volta giunti sul versante opposto dell’isola, nella località di Annotto Bay, da dove, in una buona mezz’ora di strada costiera raggiungiamo Port Antonio ed il Dragon Bay Hotel, nel quale soggiorneremo le prossime notti.
Il mattino seguente di buon’ora, sono già in piedi a spalancare la finestra del nostro bel cottage situato in cima ad una collinetta degradante verso il mare. E’ una splendida giornata e il cinguettio dei doctorbirds, i colibrì endemici della Jamaica, fa da colonna sonora al sublime paesaggio che si manifesta ai miei occhi. Il Dragon Bay, incastonato in una meravigliosa piccola baia lambita da calme acque trasparenti, ed interamente circondata da una rigogliosissima vegetazione, mi appare in tutto il suo splendore. Tutto secondo copione, se non fosse per il problema non trascurabile del bagaglio. Così, dopo aver fatto un’abbondante colazione a base di uova fritte e bacon, ackee  (tipico frutto giamaicano) & Salt Fish (merluzzo), usciamo sul piccolo piazzale antistante il nostro cottage in cerca di un taxi che ci conduca in paese dove acquistare qualcosa, poiché non disponiamo praticamente di nulla, fatta eccezione per gli abiti con i quali abbiamo viaggiato.
Dall’alto della collina dove ci troviamo, restiamo per un istante folgorati dall’incredibile vista della Blue Lagoon, ed in seguito, considerato che non c’è praticamente alcun taxi, ci riversiamo sulla strada principale, dove, dopo pochi minuti di cammino, saliamo a bordo di uno sgangherato autobus, il quale ci permette di raggiungere in pochi minuti il paesino di Port Antonio ascoltando dell’ottima musica reggae, sparata a tutto volume da una radio posta sul cruscotto del driver.
Sebbene sia mattina, già splende un sole accecante, il quale crea degli incredibili giochi di luce con i forti colori tropicali. Fa decisamente caldo, ed il paese pullula di gente nella quale vorremmo confonderci, ma è ovviamente impossibile cromaticamente, e ci sentiamo giustamente osservati. Così, veniamo immediatamente avvicinati da una specie di armadio ambulante alto un paio di metri, il quale non ci molla un attimo e mi parla a pochi centimetri dal viso, facendomi sorbire il suo pesante alito saturo di alcool. Ci propone rapidamente di tutto, esprimendosi in un inglese cantilenato e seguendoci passo dopo passo, nonostante cerchiamo ripetutamente di scoraggiarlo. Sappiamo che il fenomeno degli “hustler” è assai diffuso in Jamaica, una specie di piaga endemica, tanto che l’ente turistico si è molto dato da fare negli ultimi anni per eliminarlo. Gli hustler sono persone senza lavoro, che vivono di espedienti ai danni dei turisti, spesso semplicemente molestandoli, ma a volte anche minacciandoli con fare aggressivo, al fine di vendergli a tutti i costi qualcosa o farsi magari regalare qualche dollaro. Cerco di fargli capire che desideriamo essere lasciati in pace, ma il tizio continua a seguirci dappertutto, fino a quando, forse stanco, non impreca qualcosa verso di noi e se ne va in un’altra direzione brontolando.
Ci riversiamo immediatamente all’interno del pittoresco ed affollatissimo Musgrave Market, dove la Jamaica ci offre il meglio di se, ammaliandoci con un’intensa esplosione di colori, odori, suoni. Ci sono decine di banchi che offrono un’infinità di frutti come banane, guava, cocchi, manghi, star apple, ma anche altri che arrostiscono grassi jerk di maiale, lanciando nell’aria intensi profumi. Riusciamo a comprendere ben poco di quanto udiamo, in quanto la maggior parte delle urla dei venditori e dei rumorosi ed animati colloqui avvengono in un dialetto (patois), il quale consiste in misto di termini inglesi, spagnoli, ma soprattutto africani. Con non pochi sforzi, ma molto divertiti da questa simpaticissima gente, la quale mostra tutto il suo calore nelle vivaci contrattazioni, acquistiamo qualche maglietta, dei costumi da bagno, dei sandali di gomma, ma anche qualche dolcissima e saporita banana. Mentre aspettiamo l’autobus, veniamo avvicinati da un ragazzo sulla trentina, che subito si propone per condurci ovunque desideriamo. Gli diciamo che non siamo interessati ai suoi servizi, ma si mostra simpatico, cordiale, spiritoso, e poi l’autobus non si decide a partire, quindi saliamo sulla sua vettura, dopo aver ovviamente contrattato lo strappo fino al nostro albergo.
Joseph mi piace, trovo il ragazzo veramente amichevole e così ci fermiamo un poco a scambiare quattro chiacchiere. Si offre di farci visitare i dintorni e, nonostante non sia un taxista, subito dopo ci troviamo a contrattare sulla cifra da lui richiesta, per trasportarci in determinate località che ci interessano. Ci diamo quindi appuntamento all’indomani mattina, ma prima, dopo aver indossato i costumi da bagno e le colorate magliette acquistate al mercato, ci facciamo accompagnare nella sottostante Blue Lagoon.
Il colpo d’occhio è eccezionale. La profonda laguna dalle acque color giada è interamente circondata da una folta vegetazione e si apre verso il mare attraverso uno stretto canale, ma è alimentata anche da sorgenti di acqua dolce che salgono dal basso. Trascorriamo degli intensi attimi sereni, comodamente seduti al bar di fronte la laguna, sorseggiando una ghiacciata “Red Stripe”, la birra locale, chiamata simpaticamente “policeman”, a causa della striscia rossa posta diagonalmente sull’etichetta bianca, la quale ricorda appunto i pantaloni dei poliziotti giamaicani. Veniamo adescati da un ragazzo, il quale ci offre una gita in barca che, considerato il tempo magnifico, ed il mare dalle mille sfumature che si presenta dinnanzi a noi, ci sembra proprio l’ideale in questo momento. Il giamaicano scompare praticamente nel nulla, quasi facendoci pensare che non ci siamo compresi, ma poco dopo riappare a bordo di una lunga lancia a motore, sulla quale saliamo, salpando velocemente verso il mare aperto.
Il panorama è straordinario e dal mare possiamo ammirare ancora meglio la fitta vegetazione che ricopre sostanzialmente l’intera costa, ma più ci allontaniamo dalla placida laguna e più le onde diventano grandi, sempre più minacciose, terrificanti. Il ragazzo procede spedito tagliandole a tutto volume, facendo in questo modo oscillare incredibilmente la lancia a destra e sinistra. Abbiamo più volte la sensazione di ribaltarci in acqua, e gli urlo a squarciagola di rallentare, sorbendomi i suoi poco rassicuranti “ja mon, no problem mon”, ma per fortuna rallenta poco dopo la corsa, considerato che siamo giunti in prossimità della Winnifred Beach, una bella spiaggia a forma di mezzaluna. Praticamente terrorizzati scendiamo dalla barca, adagiandoci sulla spiaggia dorata in compagnia di numerose famigliole giamaicane. Qui siamo gli unici turisti e la cosa effettivamente non ci dispiace, anche se ovviamente ci sentiamo osservati e, forse, considerati a ragione un poco invadenti. Osserviamo i bambini giocare semplicemente nelle limpide acque, alcune coppiette scambiarsi teneri baci, altre persone che fanno il bagno nude in un piccolo torrente poco distante, a ridosso della generosa vegetazione tropicale che circonda la zona. Nonostante i giovanissimi giamaicani sembrano prediligere oggigiorno una sorta di particolare rap caraibico, qui il classico reggae aleggia ancora sovrano nell’aria, contribuendo a conferire al posto un’aria prettamente giamaicana, la Jamaica che sognavo, lontana dalla spiagge turistiche degli hotel “all inclusive”. Passiamo un paio d’ore divertiti su questa spiaggia, crogiolandoci al sole, ma dialogando spesso anche con questa gente così amichevole e cordiale, che quando parlano tra loro in realtà non capiamo, ma che simpaticamente si sforzano di comunicare con noi, mentre i bambini, veramente bellissimi, a volte si avvicinano per sfotterci chiamandoci “whitey”, e come possiamo dargli torto, considerato che a gennaio la nostra abbronzatura estiva è bella che andata, ed effettivamente sembriamo dei latticini, vicino alle loro belle lucide carnagioni color ebano.
Il giorno successivo telefoniamo alla compagnia aerea, ma non riceviamo buone notizie, in quanto sembra che il nostro borsone sia atterrato a Barbados, e dovrebbe esserci recapitato nei giorni seguenti. Quando però, non si sa.
Joseph arriva puntuale all’appuntamento. In macchina, assieme a lui siede un signore sulla cinquantina, il capitano della nostra zattera. Si, perché stamattina siamo diretti al Rio Grande per effettuare rafting, ma Joseph ha ben pensato di far guadagnare qualcosa a questo suo amico, il quale lavora da anni trasportando turisti sul fiume. Il percorso fino a Barridale è alquanto piacevole, nonostante le strade versino in pessime condizioni e siamo costretti ad innumerevoli rallentamenti per evitare delle buche grandi come crateri. Oggi è domenica e le piccole chiese straripano di fedeli, molti dei quali vestiti a festa. Ne incontriamo parecchi lungo la strada e restiamo colpiti in particolar modo dalle donne, particolarmente agghindate. Le melodie delle messe cantate si odono sin fuori i portoni delle chiese, così come gli “alleluia”, che echeggiano imperiosi nell’aria. Strano ma vero, la Jamaica detiene il record del più alto numero di chiese per chilometro quadrato al mondo. La maggior parte della popolazione appartiene alla Chiesa Anglicana, ma sono presenti anche culti battisti, cattolici, metodisti, ed altri ancora. Poi, come ci ricorda un anziano signore che incontriamo ai margini della strada, una volta usciti dal centro abitato, ci sono sempre i rasta. Le sue trecce gli arrivano fino ai piedi e sono particolarmente folte, ingiallite, hanno l’aspetto di enormi e spesse funi di canapa. I nostri amici ci raccontano che lui è un vero “rastaman”, abita nei boschi e raramente scende in paese.
Continuiamo a viaggiare su strade dissestate attraverso bellissime foreste, incontrando di tanto in tanto alcuni piccoli agglomerati di case molto modeste e qualche ragazzino che porta al pascolo delle caprette. Arriviamo quindi nei pressi di Barridale, dove troviamo alcune decine di zattere ormeggiate su una piccola spiaggia ghiaiosa in prossimità del Rio Grande. Joseph ci saluta, dandoci appuntamento in prossimità del mare, dove arriveremo alla fine del nostro rafting, mentre il “capitano” sceglie una zattera, che fa scivolare lentamente in acqua e ci invita a salire. Iniziamo quindi a navigare sul fiume, a bordo di questa lunga e stretta zattera composta da canne di bambù, sulla quale è stato appositamente collocato una specie di sedile con tanto di cuscino, che ci permette di stare comodamente seduti, mentre il nostro amico si è posizionato in piedi sulla parte anteriore, e tramite una lunga pertica di legno indirizza la zattera lungo il percorso. Il tragitto è alquanto piacevole, e forse definirlo rafting è un’esagerazione, considerato che le rapide che incontriamo sono relativamente poche, ma lo spettacolo al quale assistiamo è indimenticabile. La vegetazione che accompagna le sponde del Rio Grande è rigogliosa, verdissima, intensa.

Su alcune piccole anse osserviamo diverse donne lavare il bucato, così come i soliti bellissimi divertiti bambini che ci salutano gridando, mentre spesso il cielo si copre di storni di piccoli uccelli colorati. L’acqua del fiume è estremamente limpida, ed in una piccola rientranza, particolarmente protetta dalla corrente, ci tuffiamo per un bagno rigeneratore. Il nostro “capitano” ci racconta di quando, ancora bambino, accompagnava il padre sul fiume, e si ricorda di Errol Flynn, il celebre attore di Hollywood che, in seguito ad una tempesta, approdò a Port Antonio nel 1946 e s’invaghì talmente tanto del posto da risiederci a lungo. Sembra che proprio Flynn inventò il rafting turistico sul Rio Grande. Secondo quanto si narra, dopo aver osservato le zattere che trasportavano le banane dall’interno fino alla costa, avrebbe suggerito lui stesso ai residenti l’idea di trasportare “turisti” anziché banane, poiché avrebbero sicuramente guadagnato molto di più. Dopo il grande Bob, ritrovo un altro mito del passato, uno degli eroi della mia tenera giovinezza, il mitico “Capitan Blood”, il quale sembra aver intensamente legato parte della sua vita a questa splendida terra.
Dopo circa tre ore intravediamo il mare, segno che la nostra gita in zattera è terminata, ed infatti poco dopo udiamo la voce di Joseph, che dall’alto ci saluta. Torniamo indietro lungo la costa, superando Port Antonio ed il nostro hotel, quindi ci fermiamo sulla Boston Beach. Altro posto frequentato prevalentemente dai locali, ed altra bella piccola spiaggia, dove ammiriamo molti giamaicani occupati  a cavalcare magistralmente le impetuose onde caraibiche con delle rudimentali tavole da surf. Il motivo principale per cui ci siamo fermati qui, è però dettato dalle molteplici bancarelle dove, su alcuni fusti di petrolio tagliati a metà, sta lentamente arrostendo il jerk, il cui odore stuzzica non poco il nostro famelico appetito. Il termine “jerk” indica il modo come vengono cucinate le carni di maiale e pollo, ma talvolta anche il pesce. Le stesse vengono dapprima lavate con aceto e marinate successivamente per diverse ore in una piccantissima salsa composta da varie spezie, dopodiché vengono fatte arrostire lentamente sopra un fuoco di legno di pimento, su dei fusti di petrolio tagliati a metà e ripiegati in maniera tale che una parte funga da coperchio. Anche qui dei grossi altoparlanti diffondono nell’aria il battito cardiaco dell’isola, ovvero la pulsante musica reggae, mentre noi, divertiti più che mai e con lo sguardo rivolto verso l’impetuoso Mar dei Carabi, gustiamo del pollo dal sapore eccezionale, anche se siamo costretti a far fuori diverse “policeman”, per fronteggiare l’incendio che è divampato nelle nostre bocche. Patrizia chiede a Joseph se è sposato, ed il giamaicano, sentendosi forse ora più a suo agio e vinte le iniziali diffidenze nei nostri confronti, diventa serioso e ci racconta qualcosa di lui e del suo paese. Così ci parla dei suoi tre bambini, “tutti maschi per fortuna”, del suo diploma, che gli serve però a ben poco, considerato che lavora in una piccola fabbrica come operaio, dalla quale spesso si assenta per andare a caccia di turisti, poiché in un giorno o due, riesce a guadagnare quasi quanto percepisce in un mese di lavoro. Joseph conosce bene le elevate tariffe dei taxi autorizzati e quelle dei noleggi di autovetture, quindi riesce a proporsi ai turisti in maniera per loro conveniente, considerato che, chi vuole fare dei lunghi giri come noi, non può certo servirsi degli autobus, i quali garantiscono solo saltuari collegamenti tra le principali località. Ci racconta che spesso però molti forestieri hanno paura, non si fidano, e che non di rado deve elargire una piccola “offerta” ai poliziotti, in quanto la sua posizione è chiaramente illegale, ma “il nostro paese versa nella corruzione” prosegue, “per cui è normale, tutto funziona così”. Joseph continua dicendoci che difficilmente il suo paese riuscirà ad uscire dalla stato in cui versa, poiché la gente, nonostante la presa di coscienza di uno spirito nazionalistico, ragiona purtroppo ancora secondo abitudini secolari, spesso legate alla condizione di vita degli schiavi, alla quale è stata sottoposta per anni. Inoltre, la povertà è assai diffusa e molta gente è costretta a vivere alla giornata, spesso improvvisandosi nei più disparati mestieri. La vecchia società di tipo agricolo si sta gradatamente trasformando in una società urbana, anche se, la maggior parte di quelli che si recano ad esempio a Kingston in cerca di fortuna, accrescono sostanzialmente il gran numero di disoccupati che vivono di stenti nelle baracche. Molte persone nascono e muoiono povere, e sono già fortunate se nella loro triste esistenza non hanno mai avuto a che fare con la giustizia. Il guaio, prosegue Joseph, è che molti, oltre a non disporre di mezzi sufficienti, hanno anche paura di essere intraprendenti, di provare a fare qualcosa per smuoversi dallo stato in cui versano, ed accettano passivamente la loro vita così come viene, come ai tempi degli schiavi, quando gli stessi venivano costretti a non prendere iniziative, ed obbligati con la forza ad accettare le loro misere condizioni. In questo modo non si progredisce, e molti trovano la strada del crimine come la più semplice da percorrere. Patrizia ed io ci guardiamo per un istante, colpiti dalle profonde parole del ragazzo, il quale prosegue dicendoci che ci racconta queste cose, perché sediamo assieme a lui e alla sua gente senza pregiudizi, senza sentirci superiori perché bianchi, e sicuramente benestanti. “Sapete come chiamano la nostra terra?” continua il giamaicano, “L’isola delle tre R”, “e le stesse significano per la stragrande maggioranza dei turisti che mettono piedi qui unicamente Rum, Reggae e Rasta, ma nessuno, dico nessuno si interessa a noi, alla gente comune che abita questo paese, a chi quotidianamente li serve a tavola, li accompagna in giro, fa si che non manchi niente nel loro dorato soggiorno giamaicano”. Rimango completamente annichilito da quanto afferma Joseph, ma non posso che concordare con le sue affermazioni. Troppo spesso il turista è attratto unicamente dalle bellezze naturali di un posto, praticamente infischiandosene delle gente che vi risiede, e troppo spesso la stessa viene vista soltanto come un fenomeno da baraccone, al quale scattare foto a ripetizione da mostrare agli amici. La storia della Jamaica è una storia che gronda di sangue, il sangue sacrificale di migliaia di africani strappati alle proprie terre, in virtù di miseri interessi elaborati secondo ignobili calcoli fatti a tavolino. I suoi abitanti, oltre ad aver subito per anni l’onta della schiavitù, sono stati assoggettati fino ancor prima della recente indipendenza, anche ad una classificazione dettata in base al colore della pelle, secondo biechi motivi stabiliti dall’impero britannico, facilmente riassumibili in “dividi et impera”. Ecco quindi, che questa nazione a larga maggioranza nera, dove il potere era tenuto da pochissimi bianchi, divenne una nazione fondamentalmente basata sulle sfumature della pelle, nella quale, più la stessa tendeva al chiaro e più si poteva accedere a determinati servizi, ovviamente negati ai più.
Quasi volutamente, dai giganteschi altoparlanti posizionati all’inizio della spiaggia echeggiano ora le note di “Marcus Garvey”, noto brano di Burning Spear, un altro grande del reggae, e non posso far a meno di riflettere sulle grandi ideologie di Garvey, ispiratore del rastafarianismo, ed autentico sostenitore della rivendicazione del nazionalismo nero nel mondo. Già, proprio Marcus Garvey, nato e vissuto a lungo in una nazione imperniata sulla gamma dei colori, nella quale hanno sempre dettato legge gli uomini bianchi, ed in rapida successione chi più si avvicinava a questo colore, una nazione indipendente solo nel 1962, la cui bandiera porta i colori del verde per simboleggiare la rigogliosa vegetazione che ricopre il territorio, dell’oro per simboleggiare il sole, ma soprattutto del nero, per simboleggiare il colore della sua popolazione, diretta discendente dagli africani strappati brutalmente alle proprie terre. Nonostante questo, e nonostante la forte adesione delle masse al rastafarianismo, alla lotta aperta contro “Babilonia”, ed in sostanza all’avversione nei confronti del corrotto mondo dei bianchi, rifletto ancora sul fatto che il primo premier “nero” a tutti gli effetti, sia stato eletto solo trent’anni dopo l’indipendenza, cioè nel 1992, e nel frattempo, mentre le note sincopate del reggae si contrappongono alle onde violente del mare, incrocio gli occhi di Joseph, che credo abbia capito di aver colpito nel segno.
Lasciamo la Boston Beach, continuando il nostro giro verso est, lungo la dissestata strada A4, nella quale si alternano belle spiagge dal mare increspato, a tratti di verdissima vegetazione tanto intensa da togliere sostanzialmente ogni visuale. Ogni tanto notiamo ai margini della strada dei piccoli banchetti che espongono la solita coloratissima frutta, mentre a volte, ci troviamo davanti qualche sconquassato autobus che rallenta la nostra già fiacca marcia, ma che non sempre Joseph riesce a superare, considerato l’alto numero di buche che rendono molto accidentata la strada. Arriviamo alla Long Bay, una lunghissima spiaggia a forma di mezzaluna, dove il mare, dolcemente increspato, presenta varie tonalità di azzurro. Ci fermiamo un paio d’ore, passeggiando sulla spettacolare spiaggia e bagnandoci di tanto in

tanto, seppur facendo particolare attenzione alla forte corrente che sembra trascinarci pericolosamente verso l’interno. Il posto presenta un’atmosfera rilassata, molto informale, e si potrebbe stare qui per ore senza far niente, semplicemente osservando le onde che s’infrangono sulla bianca spiaggia, od il cielo tanto azzurro da far male agli occhi, ma vogliamo proseguire oltre, e ci mettiamo alla ricerca di Joseph, che nel frattempo si è addormentato sotto una palma.
Sono ormai le 17 quando, poco dopo aver superato il piccolo villaggio di Manchioneal, ci addentriamo per un breve tratto verso l’interno e raggiungiamo le Reach Falls. Sebbene le stesse rappresentino una delle principali attrazioni del poco turistico distretto del Portland, di fatto non c’è nessuno, e così, dopo aver sceso una serie di gradini, ci troviamo davanti alla scenografica immagine delle cascate, interamente circondate dalla foresta pluviale. L’acqua del piccolo laghetto sotto le cascate è gelida, ma la notevole trasparenza della stessa invita assolutamente ad un bagno, e dopo aver indugiato non poco, mi immergo lentamente, provando dapprima una specie di paralisi dell’intero corpo, seguita quasi subito da un piacevole senso di diffuso benessere. Raggiungo il punto più profondo del laghetto, in prossimità del massiccio gettito d’acqua proveniente dall’alto, e mi soffermo meravigliato, ad osservare ciò che mi circonda. Mentre l’acqua precipita con forza sulla mia testa, spazio con lo sguardo tra il verde intenso della vegetazione circostante e la pozza color giada nella quale sono immerso, restando letteralmente incantato da codesto spettacolo. Vengo immediatamente raggiunto da Patrizia, con la quale ci abbracciamo entusiasticamente sotto il gettito d’acqua, ed il posto è talmente isolato, ricco di suggestivo fascino e così romantico, che quasi ci vien voglia di emulare la scena di un famoso film girato proprio sotto queste cascate, ma le note strimpellate da una piccola chitarra, ed un cenno di saluto da parte di un paio di giamaicani che nel frattempo hanno raggiunto il laghetto, ci riportano alla realtà, seppur sempre piacevole.

Siamo di nuovo sulla statale A4 ad evitare buche, ed a conversare con Joseph, che nel frattempo ha inserito un nastro di musica reggae, la quale contribuisce sostanzialmente a rendere allegro il movimentato tragitto. Poco prima di arrivare al nostro hotel, il ragazzo imbocca una stradina sterrata che percorre per qualche centinaio di metri, fino a giungere in prossimità di una semplice casetta. “Questa è la mia abitazione”, dichiara fieramente il nostro amico, invitandoci ad entrare. Subito dopo escono dal nulla due bambini, che corrono veloci verso il padre salutandolo affettuosamente, prima di scomparire nuovamente nei paraggi. Entriamo, nonostante ci sentiamo imbarazzati, e facciamo la conoscenza di Margaret, la giovane moglie, la quale ci fa accomodare. Le diciamo che è ormai tardi, ma Joseph insiste, e ci dispiace rifiutare la sua ospitalità, soprattutto dopo quanto ci aveva detto in giornata. L’interno della casa, tra l’altro molto piccola, è arredato alquanto modestamente, ma un focolare domestico può essere costituito anche da un piccolo fornello dove bolle una minestra dall’aspro odore, un tavolo, quattro sedie e qualche branda, ed inoltre,  la bella Margaret ci offre un tè con una dignità tale da far invidia. Conosciamo anche Tommy, l’ultimo dei tre figli che, nonostante abbia ormai compiuto i tre anni di età, ancora non cammina. Joseph ci spiega che il bimbo è normale, non presenta nessuna patologia che gli impedisca di camminare, ma non ci riesce, malgrado si presenta alquanto vivace, come ben capiamo, anche quando si rivolge a noi sorridendoci e spalancando i suoi occhioni che sembrano due enormi fari lampeggianti sulla sua bruna pelle. Joseph ci spiega che hanno provato a portarlo anche dal “balmist”, una sorta di guaritore che pratica antichi riti “obeah”, cioè legati alla magia nera, ma malgrado le numerose pozioni ingerite, il bambino non ha fatto progressi. “Anche per questo” continua, “spesso mi assento dal lavoro, rischiando di fatto il licenziamento, perché voglio portarlo da uno specialista a Kingston, uno di quei dottori che chiedono un mucchio di soldi per una visita”. Cerchiamo di rincuorarlo, anche se sappiamo che le nostre parole servono a ben poco, e dopo aver ringraziato Margaret e salutato Tommy, ci facciamo accompagnare in hotel.
Telefono alla compagnia aerea a Kingston, dalla quale ricevo ancora una volta esito negativo circa l’arrivo del nostro borsone, e subito dopo ci sediamo ad uno sgabello del bellissimo bar circolare posizionato direttamente sulla spiaggia del Dragon Bay Hotel. Qui, dopo aver sorseggiato un paio di colorati cocktails a base di rum, scesi facilmente al ritmo incalzante del reggae, la Jamaica appare ancora più bella e spensierata, anche se non posso far a meno di ripensare a questa giornata, alle sentite parole di Joseph, a Tommy, a Marcus Garvey, ai ghetti di Kingston, all’orgoglio nero di una nazione che arranca da decenni nelle difficoltà postcoloniali.
Nelle prime ore del mattino seguente, dopo una lauta colazione, ci incamminiamo sulla strada principale, raggiungendo in breve tempo altre due rinomate gemme dei dintorni. Le scenografiche San San Beach e la vicina Frenchman’s Cove, entrambe immerse in una lussureggiante vegetazione tropicale, sono indubbiamente bellissime, tanto che sono state usate come set cinematografico per svariati film, ma le stesse, poiché sono spiagge private a pagamento, rimangono prive di quella calda atmosfera locale a noi tanto cara in questi giorni, e pertanto non ci entusiasmano particolarmente, sebbene la trasparente acqua color verde smeraldo della seconda in particolare, le conferisce un fascino speciale, che tende a rapire gli sguardi ammaliandoti.
Poco prima di mezzogiorno rientriamo in hotel, dove troviamo Joseph ad attenderci, tramite il quale lasciamo definitivamente Port Antonio e la florida regione del Portland, percorrendo la statale A3 verso ovest. Il ritmo sincopato dell’immancabile musica reggae accompagna il nostro viaggio attraverso pittoreschi villaggi locali e colorate cittadine ricche di fascino come Buff Bay ed Annotto Bay. La strada, come sempre sufficientemente sconnessa, alterna tratti in cui corre parallela al mare, generalmente abbastanza mosso, a tratti in cui si immerge totalmente in una folta vegetazione.
Dopo un paio d’ore di tragitto, il paesaggio prevalentemente rurale lascia il posto ai primi cartelloni pubblicitari, mentre le strade, dapprima completamente libere, diventano improvvisamente trafficate. Capiamo immediatamente che siamo giunti ad Ocho Rios e, guida alla mano, ci facciamo condurre da Joseph direttamente all’Hibiscus Lodge, una della poche sistemazioni decorose a buon mercato, dove contrattiamo il prezzo di una stanza per la notte. Scarichiamo velocemente i bagagli, telefoniamo alla compagnia aerea per informare dove soggiorneremo questa notte, ed approfittando del nostro amico, il quale deve compiere il viaggio di ritorno verso Port Antonio, ci facciamo accompagnare alla principale attrazione del paese, ovvero le Dunn’s River Falls. Scendiamo nel grosso parcheggio adiacente le cascate, dove un forte abbraccio ci congeda forse per sempre da Joseph, con il quale abbiamo trascorso intensi felici attimi. Sarà perché mi affeziono ai posti, sarà perché mi lego tremendamente alle persone, ma gli adii non mi sono mai piaciuti, e saluto con immensa tristezza Joseph, grazie al quale ho vissuto più sentitamente questi giorni in Jamaica. Chissà quanti altri “bianchi” dovrà ancora scorazzare sulle tortuose strade del Portland, chissà mai quando Tommy inizierà a camminare, e chissà quando, il suo paese potrà effettivamente emergere dallo stato in cui versa, riscattando definitivamente secoli di incivili soprusi.
Viaggiando attraverso le sue trafficate strade avevamo avuto dei preoccupanti sentori, ma ora, incamminandoci dal parcheggio verso l’ingresso delle cascate, ci rendiamo effettivamente conto di quanto sia diversa Ocho Rios dalla Jamaica che abbiamo vissuto in questi giorni. Qui, il turismo discreto di Port Antonio lascia il posto alle comitive di vacanzieri delle numerose navi da crociera. Quindi anche la risalita delle spettacolari Dunn’s River Falls, diventa una sorta d’affollato luna park offerto dalla natura. Le cascate però sono effettivamente scenografiche, e le loro limpide acque degradano per ben 180 metri verso il mare, formando lungo il percorso numerosi piccoli laghetti dove potersi tranquillamente immergere, magari in compagnia di qualche grasso pensionato americano. Scendiamo attraverso dei comodi gradini fino allo sottostante spiaggia lambita da un mare che presenta i classici colori caraibici, dopodiché ci apprestiamo a risalire le belle cascate, letteralmente immerse nella rigogliosa foresta pluviale. Sebbene molti paghino delle guide, o si cimentano in buffe e coreografiche “cordate”, la risalita delle Dunn’s River Falls è estremamente semplice, ed il piacere migliore consiste nell’immergersi nelle tante pozze che s’incontrano lungo il percorso. Trascorriamo così il pomeriggio, bagnandoci in queste chiare acque, ed osservando intere comitive di gente che si  diverte come bambini alle giostre. Poco distante dal grosso parcheggio, troviamo un grosso mercato che vende paccottiglia per turisti a prezzi da rapina, dove anche una semplice t-shirt costa un’occhio della testa, ma il tutto è ampiamente giustificato, poiché i  turisti che vanno per la maggiore, qui sono i facoltosi yankees che sbarcano giornalmente dalle navi da crociera. La sera ci riversiamo per le strade di “Ochi”, anche perché dobbiamo rinnovare il guardaroba, considerato che del nostro borsone non c’è nessuna traccia e sono giorni che indossiamo gli stessi indumenti acquistati al mercato di Port Antonio.
Alle cinque del mattino del giorno seguente, mentre mia moglie è ancora assorta dolcemente nel sonno, mi trovo già sulla veranda della nostra stanza ad ammirare il sorgere dell’alba, mentre un’enorme nave da crociera entra lentamente nelle placide acque della baia. Ochi si prepara a un altro giorno e le Dunn’s River Falls all’ennesima invasione.
Decidiamo di non andare a Montego Bay, la principale meta turistica dell’isola, da dove fra tre giorni ripartiremo per l’Italia, ed optiamo invece per Negril, che dista da Ocho Rios quattro o cinque ore di macchina. Già, perché qui, considerate le pessime condizioni delle strade giamaicane, le distanze si calcolano meglio in ore che in chilometri. La spesa per un taxi privato o collettivo è però elevata, ed allora proviamo con successo a contattare telefonicamente l’Air Jamaica Express, che in poco più di un’ora ci farà atterrare comodamente a Negril, per la modica cifra di cinquanta dollari a persona. Avremmo potuto risparmiare solo prendendo almeno un paio di autobus locali, ma avremmo impiegato quasi l’intera giornata.
Ecco quindi Negril e la sua candida spiaggia lunga circa undici chilometri, denominata appunto “Long Bay”, nella quale si alternano innumerevoli bar ed hotel non più alti delle palme, a negozietti di souvenir.

Negril, lontana dai miserabili ghetti di Kingston, rappresenta la Jamaica del classico immaginario collettivo europeo, la classica isola delle tre R, secondo il detto del nostro amico Joseph. Sole, palme, sabbia fine color borotalco, mare caraibico, divertimenti a non finire, musica reggae sparata a tutto volume. Negril invoglia a fare tutto e niente, nel senso che si possono praticare tutti gli sport d’acqua possibili ed immaginabili, oppure si può stare comodamente sdraiati all’ombra di una palma ad osservare la gente cha passa, i venditori di frutta tropicale, di oggetti d’artigianato, di aragoste, di ganja, da noi conosciuta più comunemente come marijuana, il cui dolciastro odore aleggia nell’aria.

Com’è lontano il Portland, come sono lontane le sue spiagge frequentate prevalentemente dai giamaicani, com’è lontana la sua dolce atmosfera rilassata. Sulla spiaggia di Negril abbondano i rasta, o pseudo tali ad uso e consumo turistico, che con le loro dreadlocks, le lunghe trecce bruciate dal sole, contribuiscono a rendere effettivamente “Jamaica” quest’immensa spiaggia, ed a far sentire felici le giovani turiste occidentali color latte in cerca d’avventure, con le quali passeggiano per mano creando un interessante binomio cromatico.
Tra lunghe passeggiate, colossali sbronze ai numerosi bar disseminati lungo l’immensa spiaggia, alcune ore snorkeling sulla vicina barriera corallina, il nostro soggiorno giamaicano giunge al termine e ci riserviamo per l’ultima sera una visita al luogo culto del circondario, ovvero il celeberrimo Rick’s Cafè.

Il bar, situato dalla parte della scogliera, consente di ammirare secondo molti uno spettacolare tramonto. Paghiamo il biglietto d’ingresso, il quale consiste nell’acquisto di una consumazione, dopodiché ci sistemiamo seduti su un muretto a picco sul Mar dei Carabi. Ingurgitiamo un paio di rum punch, mentre brevemente il bar si riempie di turisti, i bassi gonfiano ripetutamente le grandi casse acustiche posizionate a breve distanza e la mitica voce di Bob Marley diffonde nell’aria la leggendaria “Jamming”.
Ad un tratto tutti iniziano a cantare, il rum scorre a fiumi, ed il sole, camuffato da grossa sfera color fuoco, inizia la sua lenta discesa all’orizzonte, adagiandosi lentamente nella placide acque caraibiche. Effettivamente debbo ammetterlo, si è trattato di un gran bello spettacolo.
Eh si caro Bob, quanto è bella la tua terra.

In hotel troviamo ad attenderci un messo della British Airways, il quale ci comunica che domani ci consegneranno il nostro bagaglio, e ci “elargisce” 400 dollari americani come indennizzo per i giorni in cui ne siamo stati sprovvisti.
L’indomani mattina, effettuiamo molto presto la solita passeggiata sulla lunga spiaggia di Negril, la quale è ancora deserta, e quindi effettivamente ancor più bella. Incontriamo i soliti colibrì che si divertono saltellare sulla sabbia, ed una coppia bianconera che sbuca da un cespuglio, nel quale avrà presumibilmente soggiornato tutta la notte. Poco distante, alcune donne iniziano a montare i loro banchetti, dove appendono colorati parei, teli da mare che rappresentano la bandiera giamaicana, cuffie in lana o cotone con i colori rasta, i colori dell’Etiopia. Lentamente la spiaggia si popola, Negril assume la consueta fisionomia, la musica reggae ritma il tempo, i venditori ambulanti iniziano le loro innumerevoli passeggiate, i facoltosi turisti rosolano al sole cocente della Jamaica, l’odore della ganja si espande nell’aria.
Davanti la porta del nostro bungalow troviamo il nostro borsone, ma ormai il nostro viaggio è finito, la sera raggiungiamo l’aeroporto di Montego Bay, ed al check-inn troviamo un’inaspettata sorpresa. Imbarchiamo il bagaglio, ed entriamo all’interno del moderno aeroporto, dove apriamo la busta a noi indirizzata, contenente una lettera con su scritte poche righe: “Cari Benedetto e Patrizia, inaspettatamente Tommy ha mosso ieri sera i primi passi, sono estremamente felice e pensavo sareste stati contenti anche voi di apprenderlo. Tornate a trovarci, voglio farvi conoscere molti altri posti della mia terra, e Margaret desidera invitarvi a cena, per farvi gustare la sua rinomata cucina. Con amicizia, Joseph”.
Alzo lo sguardo, scorgendo un manifesto che pubblicizza le tante bellezze nazionali, ed un ritratto del grande Bob, “The king of reggae”. Ripiego con cura la lettera, asciugo gli occhi, ormai completamente inumiditi e stringo forte la mano di Patrizia.
Si, ora ne sono certo, un giorno torneremo sull’isola delle tre R.

 

 

 

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