Viaggiando per proprio conto, senza nulla di organizzato, potrà capitare prima o poi di imbattersi in giornate come quella che ho provato a descrivere nel seguente racconto, dove sovente ci si chiede se quanto stiamo vivendo corrisponde alla realtà, oppure è solo un incredibile sogno, ma quando si giunge alla fine delle stesse, le ricorderemo per sempre nelle nostre memorie di viaggio.

 


- Un ferragosto "particular" lungo il Pacifico Mexicano -


 

Ancora una notte insonne, sarà stato per il poderoso rumore dell’oceano, sarà stato per il caldo asfissiante, o forse per i soliti numerosi jeki, che ancora una volta si sono divertiti a gironzolarmi attorno, facendosi udire a più riprese, ma stamattina avverto davvero una grande stanchezza. Ci dirigiamo presto alla stazione degli autobus, lasciando playa La Ropa, forse la più bella spiaggia di Zihuatanejo, un bel posticino sulla costa del Pacifico, dove ci siamo ritemprati dagli intensi giorni trascorsi a Città del Messico. Chiedo qual è il nostro autobus, mostrando i biglietti acquistati ieri sera, ma mi invitano a tornare alla biglietteria, poiché ci sono delle novità. Il forte temporale della notte ha infatti fatto crollare un ponte lungo la strada principale, e la nostra corsa per Acapulco è stata soppressa. L’unica alternativa oggi possibile è quella di prendere un autobus locale per Tecpan, e lì cambiare per Acapulco. Consulto rapidamente la nostra guida per trovare Tecpan. Niente, non c’è proprio sulla cartina, ma non abbiamo la conferma che domani le cose possano migliorare, pertanto, dopo aver sostituito i biglietti, saliamo a bordo del pittoresco autobus. Qui, niente fronzoli e comodità presenti sugli autobus di prima classe, come bagno, aria condizionata e televisore, ma solo sedili macchiati e sdruciti e tanto, tanto ferro. Chiedo al conducente quanto tempo può durare complessivamente la corsa fino ad Acapulco, ma la risposta non è poi così esauriente: “depende senor, forse cinque, sei, dieci ore”. Non c’è che dire, si prospetta davvero un bel ferragosto. Ci sistemiamo sui posti vicino ai finestrini che danno sul portapacchi, dove i nostri borsoni sono stati stipati assieme a decine di scatole, sacchi di patate, enormi buste. Ben presto l’autobus si riempie, e lo spazio a bordo si restringe notevolmente. Iniziamo la nostra marcia verso Tecpan, ma ben presto capiamo che sarà più lunga del previsto, poiché ogni cinque minuti l’autobus arresta la propria corsa, per permettere ad altre persone di salire. A bordo ci sono molte donne vestite con i tipici e candidi huipiles, ma con nostra meraviglia anche qualche tacchino, ed un paio di simpatici coniglietti. Ben presto restiamo colpiti dai paesaggi che possiamo ammirare all’esterno, dove la strada costeggia per brevi tratti l’azzurrissimo oceano, il quale mostra la propria forza tramite le gigantesche onde che arrestano la loro potenza sulle interminabili e deserte spiagge dorate. Quando la vista sul Pacifico si perde, ecco che ci addentriamo in delle vere e proprie foreste costituite da palme da cocco, sicuramente le più intense che abbiamo mai visto. Poi, improvvisamente, si susseguono dei piccoli agglomerati, poco più che un insieme di baracche, ed ecco che l’autobus si arresta, e si ripete il solito rito. Gente che scende, altra che sale, e tantissima confusione nei paraggi del portapacchi, tanto che non riusciamo a vedere nulla, e temiamo inevitabilmente per i nostri bagagli. Fa un caldo infernale, aggravato dal fatto che l’autobus contiene una vera e propria folla umana. Patrizia si addormenta con il volto appoggiato sul finestrino, e poco dopo la emulo, appoggiandomi a mia volta sulle sue spalle. Il mio sonno è però breve, poiché vengo svegliato da un qualcosa di liquido, che scivola lentamente lungo il mio braccio. Confesso che, semiaddormentato, non sono riuscito a capire subito di cosa si trattasse, fino a quando non ho incrociato quei grandi occhioni scuri che mi fissavano. Piccolo indio, dovevi pur fare i tuoi bisogni da qualche parte. Mi pulisco rapidamente e mi alzo, facendo accomodare la giovane donna che, forse per timore verso un occidentale, timidamente mi dice di no, tanto che gesticolando debbo insistere per farla sedere, quasi pregandola. E’ giovanissima, praticamente una bambina. Il suo bimbo indossa solo una piccola canottiera, niente pannolini, ma una semplice fascia, che evidentemente non è però sufficiente a trattenere i suoi bisogni. Eccomi quindi qui, in piedi su questa corriera, attaccato fisicamente a decine di persone che parlano lingue per me incomprensibili. Osservo Patrizia, sentendomi quasi in colpa, poi lo sguardo cade ancora una volta sulla sua giovane e timida vicina. Improvvisamente l’autobus si arresta ancora una volta. Niente persone da caricare però, ma uno stop forzato. E’ talmente tanta la confusione che non capiamo cosa succede, né tantomeno riusciamo a vedere nulla all’esterno. Veniamo fatti scendere, e, subito dopo aver messo piede in terra, restiamo terrorizzati dalla vista di un fucile a pompa puntato su di noi. E’ incredibile, addirittura un carro armato a presenziare questo posto di blocco dell’esercito messicano. Ci sono decine di militari che fanno domande e perquisiscono i passeggeri, nonché il portapacchi dell’autobus. Forse perché unici occidentali, ci chiedono i passaporti e senza tante domande ci invitano a risalire a bordo. Non voglio separarmi dagli stessi, ma mi assicurano che non ci sono problemi. Infatti, poco dopo sale un militare, il quale ce li riconsegna, augurandoci una buona giornata. Durante i giorni trascorsi a Città del Messico, avevamo avuto notizie circa alcuni gravi disordini che si stavano verificando nello stato del Guerrero, ma non immaginavano che le cose stessero in questi termini. Si tratta di una delle tante rivolte che periodicamente si susseguono in Messico, dove alla gente da secoli oppressa, vilipesa, ingannata, spesso non rimane soluzione migliore che imbracciare le armi allo scopo di far udire la propria voce. La maggior parte di queste piccole rivolte vengono però soventemente soffocate nel sangue, ed in Europa non giungono quasi mai notizie sulle stesse, tanto che sono molti a pensare che l’unico movimento insurrezionale recente sia costituito esclusivamente dall’Ezln. del Chiapas. Riprendiamo la nostra corsa verso Tecpan, e la stanchezza inizia a farsi sentire. Sono ancora in piedi, soffocato dal caldo, e dai pungenti odori che hanno preso il sopravvento a bordo dell’autobus, dove il profumo del cibo che in molti consumano, si è mescolato alla puzza di sudore, ed a quella degli animali. Durante una delle numerose fermate sale un giovane, il quale espone con disinvoltura una pistola che fa capolino dalla cintura. Ci guardiamo negli occhi, restando ammutoliti. Dopo cinque ore complessive ecco Tecpan, poco più che un villaggio costituito da basse casette con le caratteristiche scritte verniciate sui muri. Niente stazione, l’autobus arresta la propria corsa direttamente sulla carretera. Mi faccio spazio tra la ressa creatasi nei dintorni del portapacchi, dove estraggo a fatica i nostri borsoni, così sporchi da farmi spavento. Inizio a chiedere dove sia l’autobus per Tecpan, e tutti mi indicano una polverosa strada in salita. Ci incamminiamo quindi sotto un sole cocente, fino a quando la stessa finisce, interrotta da un fiume in piena, dall’acqua color caffellatte. Ecco il nostro autobus, sì, ma dall’altra parte del torrente. Scoppiamo entrambi in una grossa risata, una cosa simile non potevamo davvero mai immaginarla. Subito un volenteroso mi si avvicina, offrendomi aiuto per trasportare i bagagli sull’altra sponda, ed accettiamo divertiti. Ci invita a seguirlo, onde evitare di cadere in qualche buca all’interno del fiume. Via scarpe e calzini dunque, e fortunatamente indossiamo anche dei corti bermuda, poiché, appena dopo pochi metri, l’acqua ci arriva già alle cosce. Al centro del fiume, mentre le pietre martirizzano i nostri poveri piedi, tra le urla di decine di locali improvvisatosi facchini per aiutare i passeggeri, con il peso del borsone sulle braccia, con il sole alto che illumina la torbida acqua e sta facendo gocciolare le nostre fronti come fontanelle, mi volto indietro per un attimo, restando attonito, e quasi rifiutandomi di credere a ciò che stiamo vivendo. Sono incredibili gli imprevisti che possono accadere in un viaggio. Dopo una mezz’ora riprendiamo la nostra corsa verso Acapulco, la quale durerà all’incirca altre tre ore, del tutto simili a quelle vissute finora. Numerosi stop, altro posto di blocco con tanto di carro armato, ed un interminabile susseguirsi di paesaggi incantevoli e piccoli villaggi, dove, ad ogni fermata, decine di bambini bussano ai finestrini gridando al fine di venderci dei tacos o delle buste trasparenti contenenti bevande multicolori. E’ ormai sera quando giungiamo nell’affollata stazione degli autobus di Acapulco e raggiungiamo il nostro hotel arroccato su una collina. Alla reception veniamo letteralmente osservati dall’alto in basso, in quanto il nostro aspetto trasandato, i nostri sporchi indumenti, ed il nostro non piacevole odore, non dovrebbero certo essere rassicuranti. La prenotazione telefonica effettuata dall’agenzia di Città del Messico comunque c’è, e veniamo quindi condotti nella nostra stanza. Dopo una salutare doccia, ci soffermiamo ad osservare dalla finestra la spettacolare visione dall’alto della baia di Acapulco. Questo è un altro mondo, è la versione messicana dei divertimenti, del lusso, della vita mondana, così distante dai villaggi che abbiamo attraversato oggi, in quest’intensa giornata di ferragosto trascorsa lungo il Pacifico messicano, una giornata che difficilmente si assopirà nei nostri ricordi.

 

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